Certi di fare il bene dell’Africa?

La multinazionale delle banane “Chiquita Brands international” è stata condannata dal Tribunale di West Palm Beach – Florida, per aver finanziato un gruppo paramilitare in Colombia. Cinque organizzazioni che raggruppano milioni di piccoli agricoltori africani hanno scritto a Giorgia Meloni, in qualità di Presidente di turno del G7, per denunciare il mancato coinvolgimento dei piccoli produttori agricoli nella definizione delle iniziative adottate dal Vertice a sostegno dell’Africa.

Due accadimenti solo apparentemente tra loro scollegati che, al contrario, evidenziano la visione distorta e strumentale che i grandi del pianeta hanno del continente africano e, in generale, dei Sud del mondo.

Infatti, uno dei risultati maggiormente enfatizzati pre e post Vertice G7 dalla Presidenza italiana, è stato il metodo “partecipativo” utilizzato nella preparazione e nella definizione delle azioni in favore dell’Africa, prime fra tutte il famoso Piano Mattei di meloniana proposta, e la Apulia Food System Iniziative varata in Puglia. Ora, che le consultazioni abbiano avuto luogo è fuori discussione. Che il confronto con i Governi africani sia stato agito, altrettanto indubbio. Che il coinvolgimento al Vertice di rappresentanti di altri Paesi cosiddetti in via di Sviluppo sia stato effettuato è sotto gli occhi di tutti e gratificato dal consenso manifestato dai più di loro. Così come, direi con machiavellica coerenza, al tavolo negoziale non sono mancati i boss delle maggiori imprese e società italiane ed europee già in affari con i Sud del mondo o pronte a lanciarsi nella nuova epopea colonialumanitaria.

Altrettanto evidente l’assenza, o meglio il mancato coinvolgimento, delle rappresentanze delle organizzazioni della società civile dei Paesi soci del club G7, nonostante le loro reiterate e pubbliche richieste di invito e manifeste volontà di contribuire attivamente e costruttivamente all’elaborazione di proposte rispondenti ai ben conosciuti e frequentati contesti locali, teatri dell’incessante e collaudata azione umanitaria e di sviluppo delle ONG. Notizia, questa, completamente ignorata dai media e dalle comunicazioni ufficiali più interessati a dipingere un’indistinta società civile artificiosamente livellata sulla violenza dei quattro facinorosi scappati di casa che hanno ancora una volta invaso le cittadine pugliesi toccate dalle promenade e dalle sedute dei leader partecipanti. Il tutto nella migliore tradizione manipolatoria dei vertici G7 da Seattle e Genova in poi.

La condanna di Chiquita, che pur non essendo la prima relativa all’operato delle multinazionali attive nei Sud del mondo e nemmeno la prima per lo stesso colosso bananiero, rimane emblematica, esemplare e iconica del modello che sottintende l’idea di sviluppo della sempiterna commistione tra governi e imprese. Nei Paesi industrializzati, come in quelli in via di sviluppo. Ogni dove, a farne le spese continua ad essere l’immutata miseria dei poveri cristi, degli agricoltori, delle donne, della manovalanza sottopagata, dello sfruttamento del lavoro minorile, delle persecuzioni, evacuazioni, espropri, trasferimenti, ricollocazioni, migrazioni, sfollamenti che universalmente subiscono milioni di esseri umani e intere comunità.

Il valore pattuito dal Tribunale USA quale risarcimento per gli agricoltori vittime dell’organizzazione paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia (AUC), fondata dai principali cartelli del narcotraffico locale e finanziata “in modo prolungato, regolare e sostanziale” da Chiquita fin dal 1997, è stato fissato in 38,3 milioni di Dollari. La congruità della pena è affare di diritto giuridico. I destini, la vita e la dignità di miliardi di persone nel mondo affare di tutti. Scegliere con chi e da che parte schierarsi è primo affare della politica, o quantomeno metro sostanziale di giudizio del suo agire.

Un giudizio ed una valutazione chiaramente esplicitati nella lettera inviata al Vertice dei G7 a firma delle organizzazioni di piccoli agricoltori africani che, vale la pena rammentarlo, nel mondo costituiscono la stragrande maggioranza dei produttori. Tra queste, quella di Ibrahim Coulibaly in nome e per conto di ROPPA (West African Network of Peasants and Agricultural Producers), che rappresenta le organizzazioni contadine di 13 Paesi e centinaia di milioni di piccoli produttori agricoli. Con Ibrahim, ho condiviso innumerevoli battaglie in occasione dei Vertici e riunioni della FAO; organizzato i Forum paralleli alle assisi internazionali su alimentazione ed agricoltura; partecipato in rappresentanza della società civile mondiale ai Vertici istituzionali convocati in giro per il pianeta. La credibilità, oltre che alla competenza, di Coulibaly come degli altri quattro co-firmatari la lettera, è per me garanzia ampia della fondatezza, della ragionevolezza e della comunitarietà di quanto con essa denunciato e richiesto.  Garanzia tutt’altro che offerta quando le consultazioni e il coinvolgimento “degli africani” vengono circoscritte ai loro rappresentanti governativi come avvenuto per le citate iniziative. In molti casi questi sono ben lontani dal rappresentare le rispettive popolazioni e ancor più i loro interessi; a volte, i primi protagonisti dello sfruttamento delle risorse umane ed ambientali dei rispettivi Paesi; sempre, beneficiari dell’appoggio o almeno del nullaosta delle potenze occidentali, G7 in testa, abili burattinaie di questi prezzolati pupazzi o criminali giullari di corte alla lor mercé.

Oltre mezzo secolo fa uno dei più grandi storici africani, il beninese Albert Tévoédjré, scrisse nel suo libro “Le mie certezze di speranza”, riferendosi al dialogo tra governanti del Nord e Sud del mondo, che il problema della maggior parte di essi è illudersi di parlare con “l’Africa”, mentre non fanno altro che parlare alla propria immagine riflessa allo specchio. Immagine di una concezione del governo formata alle migliori Università dei Paesi industrializzati; forgiata alla loro scuola fordista; plasmata dalla mitologia dello sviluppo economico incontrastato; emule della malagestione delle risorse pubbliche e della esaltazione dell’interesse privato; incurante del bene comune dei loro Paesi e dei destini dei loro concittadini; impenetrabile alle richieste di maggior giustizia gridate dalle loro popolazioni; accondiscendente e benevolente nei confronti dei rispettivi cerchi magici o clan familiari. Immagine che riflette specularmente quella di un modo dilagante di governare nei nostri Paesi “avanzati”.

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