Questa povera Europa e noi europei meritiamo di più

Fra poco più di un mese andremo a rinnovare il Parlamento e, di conseguenza, la nuova leadership di questa povera Europa. Povera. In cerca di memoria, di politica, di visione.

Questa Europa fonda sull’utopia di una pace perseguibile e duratura dei padri fondatori, oggi squassata nei baluardi eretti contro le logiche di guerra e sopraffazione. Mezzo secolo di pace è stato sprecato in continue critiche ed accuse di nostalgici nazionalisti e di impenitenti qualunquisti che tutto hanno fatto e continuano a fare pur di impedire l’affermazione dell’inevitabile corso della storia che non può che condurre ad una governance a dimensione sovrannazionale capace di governare, o almeno di affrontare, i problemi e le crisi moderne. Il perdurare del potere di veto concesso ai singoli governi, ancorché mascherato dall’unanimità necessaria per l’approvazione di importanti decisioni come quelle di politica estera, lascia spazio ai continui ricatti esercitati da questo o quell’altro leader che paralizzano un efficace agire comunitario. Succederà, o già ci accorgiamo, della preziosità di un bene come la pace quando definitivamente perso.

Questa Europa in più di mezzo secolo di storia si è affermata come un attore mondiale di potenziale assoluta rilevanza. Un’opportunità non sfruttata per rafforzare, adeguare, migliorare, efficientare le sue strutture, presi come siamo dal facile costume della denigrazione, della banalizzazione e dello scarica barili delle responsabilità. A 70 anni di vita, la massima istituzione democratica comunitaria quale dovrebbe essere il Parlamento di Strasburgo, resta la mera giustapposizione di partiti nazionali e di funambolici apparentamenti postelettorali piuttosto che la risultanza di formazioni politiche transnazionali costruite su programmi elaborati con medesima dimensione; rimane un organo in balìa del potere esecutivo proprio della Commissione e dell’esuberanza di un funzionariato iper-retribuito, come dimostrano le grandi manovre in corso per la successione ad Ursula von der Leyen e il pressoché totale disinteresse per il futuro Presidente del Parlamento, tanto che dell’attuale a stento si rammenta il nome.

Questa Europa è stata un esempio per il mondo intero di possibili integrazioni regionali e di partenariato inter-regionale. L’architettura istituzionale dell’Europa, alternativa a quella statunitense, è stata ispiratrice delle diverse aggregazioni regionali sorte negli ultimi decenni del secolo scorso ai quattro angoli del pianeta;  ha avuto il merito riconosciuto all’accordo siglato a Lomé nel lontano 1975 tra Comunità europea e Stati ACP (sigla che sta ad indicare i Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico), poi perfezionato con la Convenzione di Cotonou del 2000. Per la prima volta nella storia, un’aggregazione regionale si è dotata di organi consultivi e decisionali condivisi con Paesi terzi, uno su tutti l’Assemblea Paritetica UE-ACP, con i quali definire accordi politici e di partenariato operativo con approccio partecipativo e condiviso.

Questa Europa fonda sulla chiaroveggenza di statisti orientati all’orizzonte politico e strategicamente avviata con la pragmaticità di accordi commerciali. La creazione della Comunità Economica Europea, e ancor prima quella “del carbone e dell’acciaio” istituita con il Trattato di Parigi del 1951, altro non costituiva che il grimaldello per avviare un percorso di integrazione delle politiche nazionali oggi arenatosi sulle secche della paura, dell’individualismo personalista e statalista, degli scambi di favori commerciali o del più bieco protezionismo. I contenuti del dibattito e il grado di interesse rispetto alle tematiche dell’attuale campagna elettorale in vista di giugno sono inequivocabili cartine di tornasole. Nel migliore dei casi, ciò che si propone sono idee, problemi e soluzioni di ordine nazionale, caratterizzate dalla mera difesa di interessi parziali e di prossimità, indirizzate al tornaconto e al consenso da incassare nei patri confini. A volte, nelle peggiori casistiche nemmeno sparute, completamente avulse da quell’orizzonte comunitario che si dovrebbe perseguire a Bruxelles. Gli “Stati Uniti d’Europa”, non è un caso, rimangono confinati nei recinti di una coalizione elettorale tra forze politiche italiane piuttosto che veleggiare verso un obiettivo condiviso oltre frontiera.

Questa Europa ha progressivamente ampliato i suoi confini, anche gettando il cuore oltre l’ostacolo delle inevitabili difficoltà dell’armonizzare economie, legislazioni e normative di diversa matrice e differente cultura. In questo, da subito, la tenacia, la professionalità e l’impegno di milioni di cittadini aggregati nelle realtà di società civile, sono state riconosciute e valorizzate nel loro ruolo imprescindibile per la costruzione di una cittadinanza europea foriera di convivenza pacifica, di giustizia sociale ed economica.  I programmi partecipativi di lotta all’esclusione e alle povertà condotti dentro e fuori i confini geografici continentali hanno anticipato ed ispirato buone pratiche poi diffusesi nel mondo. L’implosione che sembra caratterizzare i nostri giorni, il revisionismo applicato alle pratiche di partecipazione e di partenariato delle organizzazioni di società civile nella definizione di strategie e politiche transnazionali, la denigrazione delle ONG, il virus del sospetto aprioristico alimentato ad arte generalizzando quei pochi, esecrabili, ma fisiologici, casi di distorsione, di malversazione e corruzione, sta portando l’Unione e i suoi organi decisionali dentro il novero delle istanze lontane dai cittadini e immeritevoli della loro fiducia, del loro interesse e ancor più del loro impegno. Nessuna entità statuale può consolidarsi in assenza di una cittadinanza che in essa si riconosce, accomunata da valori e progetti, sinceramente coinvolta nella sua costruzione.

Questa Europa ha goduto della competenza e della determinazione di uomini e donne portatori di ideali, progetti e valori che ad essa hanno dedicato tempo e risorse preziose. Nell’altalenante posizionamento delle forze politiche nazionali pronte ad attaccare l’inazione dell’Unione quando in affanno e altrettanto rapide nel rivendicare piena autonomia decisionale quando di comodo, chi paga il conto sono le istituzioni comunitarie sempre più palcoscenico calcato da politici trombati o da esclusi dalle ben più ambite liste nazionali; da leader decadenti e figure mediatiche acchiappa voti; quando non disertate, come spesso riscontrato, per impegni più riconoscibili e popolarità più gratificante. Un meccanismo deleterio per la democrazia e per l’affezione degli elettori ben cavalcato dalla maggioranza dei leader delle forze politiche italiane. Al punto di proporsi in prima fila, come specchietti per allodole o richiamo per merli, nelle liste elettorali del prossimo giugno. Perché il vero interesse e il principale obiettivo della prossima chiamata alle urne non sarà il confronto tra diverse prospettive dell’Europa di domani, ma piuttosto un’ennesima, determinante prova di forza dei rispettivi contingenti patriottici.

L’Europa non se lo merita. La sua identità democratica non merita una fine tanto indegna. Noi suoi cittadini non ce lo meritiamo. Chi si propone nelle diverse liste elettorali per la scadenza di giugno utilizzi quel poco più di un mese che ci separa dalle elezioni per dimostrare la conoscenza dei dossier, esprimere la competenza nelle materie comunitarie, declinare la visione dell’Europa che propone per domani rassicurandoci, non da ultimo, del reale e fattivo impegno tra gli scranni di Bruxelles. In questo modo, forse, sabato 8 e domenica 9 giugno si tornerà finalmente a fare la coda ai seggi elettorali.

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