“Piano Mattei”? Per ora solo tagli alla cooperazione allo sviluppo

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Il 28 e 29 gennaio scorsi, con un evento organizzato in pompa magna a Roma, il Governo italiano ha presentato ai governi africani il cosiddetto “Piano Mattei”. Un’iniziativa voluta da Palazzo Chigi per rilanciare una “cooperazione da pari a pari e non predatoria” con i Paesi africani. Da quel giorno, a fasi alterne, informazione e propaganda ci hanno tenuto aggiornati sui progressi compiuti nell’applicazione del Piano: composizione e convocazione di una cabina di regia; prime missioni nei Paesi partner individuati con il criterio dell’efficienza operativa; individuazione delle parole d’ordine evocative del nuovo corso da imprimere alle relazioni con il continente africano; definizione dei settori prioritari di intervento; ecc.

Così come i dubbi sulla concretezza e sull’efficacia dell’iniziativa, anche le perplessità rispetto alla coerenza delle priorità individuate con le finalità annunciate con il Piano sono da subito emerse. Più che un programma teso a riscattare l’Africa dalla povertà, le condizioni e le premesse previste hanno evidenziato obiettivi proiettati alla risoluzione di alcune problematiche italiane: contrasto all’immigrazione; approvvigionamento energetico; partenariati economico-commerciali; assegnazione all’Italia del ruolo di “Hub energetico” nel Mediterraneo.

E fin qui, tutto coerente con la visione, gli orientamenti e le politiche dell’attuale Esecutivo. Coerente anche l’immediata adesione di alcune rappresentanze datoriali, su tutte la Coldiretti ormai totalmente collaterale all’attuale Governo, logicamente incluse nelle delegazioni governative che hanno compiuto le prime missioni operative oltremare. Coerente anche, ancorché reiteratamente deplorevole, l’esclusione di qualsivoglia consultazione con le organizzazioni di società civile. Di una loro eventuale partecipazione all’elaborazione del Piano, ovviamente, nemmeno parlarne. Figuriamoci ipotizzarla per quei pezzi di Africa organizzata già presenti in Italia, rappresentati dalle associazioni delle diaspore africane. Con l’aria che tira nei confronti delle ONG e degli stranieri, a dispetto della loro esperienza e delle evidenti conoscenze in materia di sviluppo e di cooperazione con l’Africa, non c’erano aspettative diverse nonostante le reiterate richieste di coinvolgimento avanzate dalle loro rappresentanze.

Ciò che, al contrario, risulta meno prevedibile è stata la reazione dei Paesi partner alla presentazione del Piano. Oltre alla notata assenza di esponenti di alto livello dei Governi di alcuni Paesi chiave come il Sudafrica e la Nigeria, livello richiesto e doveroso per incontri di siffatta natura, fin dalla prima convocazione romana i Paesi africani, per voce del Presidente della Commissione dell’Unione Africana (UA) – il ciadiano Moussa Faki – hanno sollevato rimostranze per il mancato loro coinvolgimento in fase di definizione del Piano e chiesto di “passare dalle parole ai fatti” in quanto non più disponibili ad “accontentarsi di promesse che spesso non vengono mantenute”. Quel “da pari a pari”, a quanto pare, parrebbe ancora una volta uno slogan à la page con i canoni del politicamente corretto imposti dalla moderna demagogia lessicale.

Perché di promesse non mantenute è piena la storia della cooperazione allo sviluppo. A partire da quello 0,7% dei rispettivi PIL che tutti i Paesi industrializzati, riuniti nell’OCSE, si sono impegnati a stanziare per l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo. L’Italia, in questo, fa purtroppo registrare uno dei dati tra i peggiori. L’Ultimo Rapporto della stessa OCSE, riferito alle risorse stanziate dai suoi Stati membri nello scorso 2023, registra ancora una significativa disattesa di questo obiettivo che, ricordiamo, viene da decenni considerato il livello adeguato ad affrontare e provare a sconfiggere fame, povertà e miseria nei Paesi dei Sud del Mondo. Solo cinque di essi – Norvegia, Danimarca, Lussemburgo, Svezia e Germania – lo hanno raggiunto. Tutti gli altri, chi più chi meno, inadempienti. In questa deludente classifica si scopre, per di più, che l’Italia ha ridotto di ben 631 milioni di Euro questo stanziamento nel corso del 2023, attestandosi su un misero 0,27% del PIL sempre più lontano dal promesso 0,70.

Ma lo sgomento aumenta addentrandosi un po’ più nel merito delle cose. Senza farne troppo mistero, il Governo italiano ha trasparentemente tenuto a precisare le fonti alle quali attingere per finanziare il Piano Mattei che, come annunciato ai Paesi partner, potrà contare su un portafoglio di 5,5 miliardi di Euro: 3 stornati dal Fondo per il clima e 2,5 sottratti, udite udite, alla cooperazione allo sviluppo appena decurtata di quei 631 milioni e già ampiamente in difetto rispetto agli impegni assunti con la comunità internazionale.

Che gli italiani si facciano ancora ammaliare dalle false promesse è un problema tutto nostro. Che questa debolezza ci accomuni agli africani sembra improbabile. Il gioco delle tre carte non funziona più sull’altra sponda del Mediterraneo. C’è da sperare, o almeno non stupirsi, che alla punzecchiatura del Presidente Faki alla conferenza di gennaio, prima o poi, non seguano azioni molto meno diplomaticamente corrette che potrebbero intraprendere i disperati, gli affamati, gli impoveriti, gli abbindolati, gli sfruttati, i disillusi, e quant’altri affollano quei due terzi dell’umanità esclusa dal cosiddetto sviluppo gestito e pianificato dai ricchi, dai potenti, dagli arricchiti, dai fortunati, dai prepotenti, dai senza scrupoli, dai politically correct.

C’è da sperare che le prime avvisaglie di questo possibile ed incontrollabile scenario siano colte e affrontate con un deciso cambio di passo. C’è da agire, con corale determinazione, per imprimere una svolta alla politica estera del nostro Paese, dell’Europa e di tutti i Paesi ricchi; per esigere al fianco degli africani e degli altri popoli dei Sud del Mondo che dalle parole si passi ai fatti; per modificare una visione del mondo che di governo in governo succedutisi da decenni nel nostro Paese patisce di miopia, egoismo, provincialismo, anacronismo, ancora concesse in virtù di una posizione di rendita acquisita, ma sempre meno solida e vieppiù disconosciuta.

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