Elezioni 2024: un giro di boa da brivido

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Mai come di questi tempi, le istituzioni sovrannazionali e il multilateralismo sono sotto attacco. Mai come in questi giorni, l’impianto di governance globale che ha retto per quasi un secolo, dal secondo dopoguerra ad oggi, appare come in crisi, indebolito, messo in discussione e, di fatto, sconfessato.

Le Nazioni Unite, perfino nella persona della sua più alta carica, vengono accusate di parteggiare per una delle due parti in conflitto in Medio Oriente. La NATO, ancorché istituzione di parte, è attaccata dal possibile futuro leader del suo maggior azionista. L’Unione Europea e la sua autorevolezza politica si dimostrano in balia di, tutto sommato, chi rappresenta, e nemmeno unitariamente, un manipolo di suoi cittadini forti della potenza dei sovradimensionati cavalli vapore delle loro quattro ruote motrici e dell’impunità loro concessa da singolare applicazione delle norme securitarie in vigore.

Le alleanze e gli equilibri precari che hanno in qualche modo retto sino ad oggi le sorti del pianeta sembrano definitivamente messi in discussione. Non tanto dai loro effetti tutt’altro che lusinghieri, in particolare nei confronti dei più deboli, quanto piuttosto dai loro stessi artefici e protagonisti. L’auspicata revisione migliorativa dei meccanismi e delle strutture faticosamente costruiti dalla comunità internazionale sembra lasciare il passo alla prevaricazione della forza di chi può permettersi di usarla a minaccia all’ordine mondiale.

Dopo che da decenni le Organizzazioni di Società Civile invocano una riforma delle Nazioni Unite, in particolare del vetusto potere di veto ancora facoltà dei cinque Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, dallo scorso anno lo stesso Segretario Generale Guterres non fa mistero di come questo ingiustificato privilegio stia alla base dell’inefficienza di quella che i padri fondatori consideravano una irrinunciabile necessità per un futuro di pace e prosperità. Cinque reduci della vittoria del secondo conflitto mondiale che, mezzi azzoppati, del tutto indeboliti e privati della credibilità internazionale a suo tempo vantata, continuano a rivendicare un ruolo ed una supremazia non più in loro potere. Economicamente, demograficamente, linguisticamente, culturalmente, essi non rappresentano più il nord della bussola mondiale, né tanto meno vengono più riconosciuti come tali. Così, le oggettive prese di posizione del Palazzo di Vetro rispetto al conflitto israelo-palestinese diventano l’occasione per ulteriormente indebolire un’organizzazione che certo non abbisogna di ulteriori assalti per definitivamente capitolare sotto i colpi dei potenti arieti spinti da arrivistici demagoghi manovrati da facoltosi possidenti delle leve economiche e finanziarie.

Da decenni ci si interroga sull’attualità, oltre che sulla sostenibilità, di una Alleanza atlantica, guarda caso creata in parallelo all’ONU, dopo la deflagrazione della Cortina di Ferro e del Patto di Varsavia, nata proprio per controreazione alla prima. L’aggressione unilaterale della NATO nei confronti dell’Albania a fine secolo scorso, seguita a breve dalla decisione altrettanto unilaterale di entrata in guerra contro l’Iraq da parte di un suo sottoinsieme di Stati membri, ha sancito il definitivo affrancamento dell’incongruenza politica e della prevalenza su di essa di interessi altri che non la finalità genuina di contribuire ad un orizzonte pacificato del mondo. Come dimostra oggi la folle istigazione, anche se per ora solo verbale, ad una rinnovata sfida tra i due dinosauri del vecchio mondo, recentemente evocata dal candidato alle presidenziali USA Donald Trump. Il solo pensare a una simile prospettiva mette addosso la pelle d’oca e prefigura uno scenario da incubo per tutti. Uno scenario che potrebbe, dio non voglia, avere il suo prossimo atto con il minacciato attacco a Rafah che Tel Aviv ha in preparazione a dispetto delle numerose pressioni internazionali con alla testa Washington, il suo grande alleato di sempre.

Sono passati oltre settant’anni dalla lungimirante intuizione di leader illuminati che ha aperto la via alla costituzione di una Unione tra gli Stati europei che portasse alla vetta contrassegnata dalla bandiera della pace sotto la cui protezione edificare un solido rifugio per i suoi cittadini. Oggi quella vetta è sferzata da una tempesta inattesa, violenta, da decenni così estranea dall’aver indebolito quel rifugio sino nelle sue fondamenta. E si sa, una struttura indebolita ben si presta ad essere assediata e poi invasa e distrutta da qualsivoglia avversario, soprattutto se supportato da un popolo stremato, facile preda di opportunistici avvoltoi o di improvvisati imbonitori. Debolezza ancora più evidente visto il ritardo incomprensibile e infausto con il quale Bruxelles esita a prendere posizione netta sul conflitto medio-orientale. Incapace di farlo nemmeno dopo il posizionamento del mai discusso alleato di oltre oceano.

Sono quei momenti nei quali la rapidità e la superficialità con cui si dimenticano i vantaggi goduti e i salvataggi ottenuti in quel rifugio vanno di pari passo da un lato con la veemenza e la miserevolezza con le quali si pretendono prebende e benefici immediati, incuranti della loro ricaduta di lungo periodo, dall’altro con la cedevolezza e la condiscendenza con le quali essi vengono accordati.

La domanda più che legittima, sollevata domenica scorsa dall’editorialista dell’Eco di Bergamo Franco Cattaneo sul quotidiano “La Provincia” a seguito delle reazioni di Bruxelles alle richieste dei “trattori”, interroga una politica in bilico tra “il riconoscimento di un errore, un cedimento strumentale alla contestazione o, in definitiva, un ridimensionamento di quel bene pubblico che è lo sviluppo sostenibile”. Certo è che, con la scadenza elettorale di giugno ormai alle porte, cresce il rischio concreto che decisioni appropriate e assennate vengano sacrificate all’altare delle emotività e delle epidermiche reazioni degli elettori che, speriamo, si recheranno numerosi alle urne.

L’inquietante prospettiva di una restaurazione che riporti a modelli improntati al nazionalismo, o a strumentali alleanze tra alcuni di essi, quale soluzione di buona parte delle sfide di questo tempo post-globalizzato non può che condurre alla collisione tra interessi parziali difficilmente conciliabili in una convivenza pacifica. La cavalcata trionfalistica di attraenti populismi ai quali, sono pronto a scommettere, assisteremo nei prossimi mesi non potrà che oltremodo illudere chi in ingenua buonafede ed esaltare chi già animato da fuoco sacro.

I prossimi appuntamenti elettorali che cadenzeranno questo 2024 assumeranno ancor più una valenza futura. Impongono scelte ponderate, di ampio respiro, responsabili e fiduciose nei confronti di un futuro condiviso e godibile da tutti. A partire dalle “europee” di giugno dove la vera sfida non sarà quella tra gli schieramenti partitici, ma tra le culture, gli approcci, le mentalità e le visioni contrapposte da essi veicolate. I suoi esiti non saranno indifferenti. Almeno per il tempo sufficiente per la definitiva demolizione o la ristrutturazione di quei rifugi malmessi, ma che restano l’unico “campo base” da cui ripartire.

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