Legge sul “Fin di vita”, autonomie e libertà di coscienza
La mancata approvazione della legge regionale in Veneto sul “fine vita” ripropone molte questioni, infiniti dilemmi e non pochi turbamenti. Tre sono quelli che turbinano nei miei pensieri provocati dalle complesse implicazioni di ordine etico e dagli ancor più complicati risvolti giuridici.
Il primo di questi lo lascio volentieri a chi con maggiori competenze, ma ripromettendomi di seguirne le evoluzioni che, di certo, non mancheranno nel prossimo futuro. La portata del problema, la caparbietà dei promotori di questa possibilità da essi considerata un diritto, la valenza delle prospettive legislative per la tenuta di una morale sino a poco tempo fa predominante nella nostra cultura e, per me la questione che più richiede prudenza di giudizio, le posizioni opposte di chi ha vissuto e vive in prima persona condizioni di tale drammaticità impongono il non volgere lo sguardo altrove, sollecitano l’obbligo per tutti di farsi un’opinione in merito, anche se fortunatamente simili lacerazioni non hanno toccato direttamente le nostre cerchie parentali. O prima che, dio non voglia, ciò possa accadere.
Il secondo attiene alle implicazioni della discussione del Consiglio regionale del Veneto con il dibattito sull’Autonomia differenziata che, con l’approvazione in Senato della proposta Calderoli, assume carattere di bruciante attualità. Come risaputo, il testo di legge del deputato leghista prevede che il trasferimento dei poteri legiferanti dallo Stato alle Regioni riguarda 23 materie con oltre 500 applicazioni pratiche tra le quali, appunto, la “tutela della salute” dei cittadini rafforzando quanto già in parte ammesso per legge e sperimentato in diverse regioni. Al netto delle valutazioni circa i risultati ottenuti con la regionalizzazione sin qui applicata, come massimamente dimostra il caso Lombardia, una tale prospettiva solleva inquietanti perplessità, quando non vere e proprie contrarietà, tra chi quotidianamente di salute se ne occupa stando dalla parte di chi può permettersi il lusso dell’indifferenza forte del magico potere dei soldi che bypassa qualsiasi ostacolo e rimuove qualsivoglia intoppo. Come nel caso dello “Osservatorio Malattie Rare” che, già nel giugno 2023, lanciava un accorato appello al legislatore e una circostanziata opposizione alla regionalizzazione della sanità al fine di evitare ulteriori discriminazioni nelle condizioni di assistenza e presa in carico delle persone con malattie rare, già ora alquanto evidenti percorrendo il Paese. O ancora come evidenziato da Medicina Democratica in merito alle verosimili “migrazioni sanitarie” che si imporrebbero nella ricerca di cure adeguate.
Condividendo appieno i dubbi sulla reale possibilità che la Legge, dovesse passare alla Camera, possa entrare in vigore a breve, come criticato anche da un quotidiano non certo di opposizione come “Il Foglio”, tuttavia meglio stoppare una simile sventura prima che possa far breccia in un popolo sempre più credulone di qualsivoglia boutade elettoralistica. Uno Stato, perché sia una Nazione e non solo un territorio tracciato su una carta geografica, si deve fondare su una cultura non unicamente delimitata da tradizioni popolari, riti e pietanze tipiche, ma su principi e valori di riferimento condivisi. La ricerca e la costruzione di questa unità richiede dialogo, tempo e un costante dibattere che rifiuta l’aver una volta per tutte raggiunto il traguardo in virtù del perenne modificarsi delle situazioni e delle continue sollecitazioni del progredire. La necessità di disporre di una legislazione nazionale sul “fine vita” o “suicidio assistito” che dir si voglia, è da tempo e da più parti invocata. Ciò, non può abdicare a fughe in avanti avvallate da uno spezzatino autonomista. Al contrario, esclude con forza la parcellizzazione di un servizio essenziale come la salute in quanto parte costitutiva dell’identità di una nazione e dei diritti di un popolo. Il fatto che proposte di legge similari siano già depositate in altre quattro regioni – Sardegna, Lazio, Friuli Venezia Giulia e Basilicata – altro non fa che acuire la problematica e porre urgenza di azione.
Ma la terza e altrettanto inquietante vicenda, porta il nome di Anna Maria Bigon: Consigliera regionale in Veneto agli onori della cronaca per aver votato contro il citato provvedimento della Regione Veneto. Nonostante la proposta di legge di iniziativa popolare presentata dall’Associazione Coscioni, forte della sottoscrizione di 9mila firme raccolte, abbia visto il voto contrario di parte del centro destra, anche per una spaccatura all’interno della stessa Lega veneta, la maggior responsabilità della bocciatura sembra voler essere accollata all’esponente PD Bigon. In nome di mai celati principi di riferimento la Bigon, di formazione cattolica e provenienza “margheritiana”, ha ritenuto di votare in contrasto con le direttive di partito, avocandosi alla libertà di scelta per le questioni di rilevanza etica. Valutazione questa, condivisa anche dal Presidente Zaia che, pur favorevole alla proposta popolare, si è chiaramente espresso in tal senso verso gli esponenti del suo partito.
Il Segretario provinciale PD, Franco Bonfante, l’ha sollevata dall’incarico di sua “vice”; la segreteria nazionale ha lamentato la non consultazione previa; la componente cattolica, Del Rio e Castagnetti in testa, ha preso immediatamente le difese della consigliera; i media si sono abbuffati al lauto banchetto con in testa il quotidiano “Libero”, ancora incredulo per una simile leccornia servita su argenteo piatto, che imputa ai cattolici “il peccato” di stare nel PD.
Ancora una volta la ragion di stato, nelle sue variegate forme applicative, scende a singolar tenzone con le coscienze. Le tattiche ingaggiano battaglia con i principi. Il risultato fa a pugni con il metodo, il fine con i mezzi. L’eterna lotta affronta un altro round. E ciò, in politica, è parte del conto.
Ciò che al contrario non trova ragione, per non arrendersi alla sentenza di fallimento del “progetto politico del PD” pronunciata da Antonio Socci dalle colonne di Libero, è il rispetto della pluralità che non sempre ammette la ricomposizione in un pensiero unico, tanto meno se rivendicata nella sfera della coscienza. Principio che vale non solo per la scommessa politica del PD, ma per tutto un Paese che della conciliazione tra cattolicesimo e socialismo ha fatto il fondamento della sua Costituzione.