Pecunia non olet (?) – Leonardo SpA e il rifiuto papale

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Il rifiuto della cospicua donazione di 1.5 milioni di Euro offerta dalla “Leonardo” all’Ospedale Bambin Gesù, ovvero del rifiuto di una tanto ghiotta elargizione da parte della Santa Sede proprietaria del noto nosocomio capitolino, riporta in auge un dibattito mai sopito. Posizioni diverse, mai riconciliate. Uno strabismo tra mezzi e fini mai ricomposto. Che dalle giustificazioni sostenute da contrapposti punti di vista altro non sembra ottenere che ulteriore divaricazione.

Lo testimoniano ancora le posizioni sostenute su Vita.it da parte di due realtà – Telethon e Fondazione Finanza Etica – che alla generosità altrui, alla filantropia, al buon cuore delle persone affidano le possibilità di proseguire nel condiviso impegno per nobili finalità, per “giusta causa”. E questo, è ciò che in molti fa vacillare un deciso posizionamento, che più alimenta dubbi e sospende il giudizio. Chiunque si sia trovato in situazioni analoghe, dove in ballo ci sono esigenze, drammi, problemi, persone in stato di necessità, ben conosce il dilemma tra il prendere per agire, e il lasciare per non tradire.

Sgombrato il campo dalle distorsioni e dalle malversazioni sempre possibili, spesso comprovate, di approfittatori e furbetti annidati nell’onestà della maggioranza che lavora, si dedica, si abnega per far del bene, delle quali ho sempre sostenuto debbano occuparsi senza remore e con assoluta fermezza le autorità preposte prima che gli schizzi di fango trascinino indistintamente nel pantano tutto il buono che c’è, il problema torna alla mai soluta questione se il denaro cambi “odore” a seconda della sua provenienza. Se la sua destinazione possa in qualche modo bastare come giustificazione di origini tanto diverse e di provenienze così controverse. Se “pecunia non olet”.

A far da discrimine ci si mette il confine tra coerenza e intransigenza; tra considerare più che legittimo trasformare, per quanto dato, profitti accumulati con attività in contrasto con i principi che orientano l’azione meritoria volta a lenire ingiustizie e sfortune, da un lato, oppure, dall’altro, ritenere incompatibile, alla luce di analoghi principi, l’accettare denaro da chi con una mano abbondantemente depreda e con l’altra, decisamente meno ricolma, dona per una causa meritoria.

Il caso dell’azienda Leonardo è certamente emblematico, così come lo sono gli opposti atteggiamenti adottati nei confronti delle sue elargizioni filantropiche da parte del Vaticano e di Telethon. La prima che, come detto, non accetta; l’altra che ammette di accettare con longeva regolarità la “”generosità” dell’azienda.

Con il beneplacito della direttrice di Telethon, la quale goffamente si giustifica evidenziando come Leonardo SpA sia “un’azienda strategica per la nostra economia, con forti investimenti in ricerca e sviluppo e, comunque, compare nella lista delle Nazioni Unite Global Compact con un buon rating di sostenibilità”,  la partecipata italiana risulta essere comprovatamente coinvolta nella produzione di materiale bellico. Bilanci che, nel giro degli ultimi dieci anni, registrano uno sbilanciamento dei proventi verso il comparto militare passato dal 50 all’83% del totale, dimostrano come Leonardo SpA faccia lauti affari con la produzione e l’esportazione di armamenti, ivi compresi quelli nucleari messi al bando dal Trattato sulla proibizione delle armi nucleari – TPNW, guarda caso non sottoscritto dal Governo italiano che detiene il 30.2% delle azioni della società.

Sorge quindi spontanea la domanda se, visti i 1.800 miliardi di Euro ricavati da queste produzioni, le donazioni, pur generose, di qualche milione offerte a enti benefici possano essere esenti dal dubbio del cosiddetto “washing”. Ovvero, da quelle strategie con le quali molte grandi aziende e la maggior parte delle multinazionali provano a “lavare” la facciata dei loro traffici e delle loro attività condotti in totale liberismo, spesso in palese violazione dei più fondamentali diritti umani, presentando un volto pulito, sensibile, attento ai bisognosi, utile alla pacificazione delle coscienze e, soprattutto, alla conquista del favore accondiscendente delle loro clientele e dei rispettivi stakeholder. Magari sostituendo nel ruolo di Amministratore delegato, per meloniana decisione, un banchiere dal palmares costellato di ripetuti fallimenti, come l’higlander Alessandro Profumo, con un ex Ministro per la Transizione ecologica di precedente Governo, nella fattispecie Roberto Cingolani!

Il peccato originale di queste plastiche facciali, a detta del sottoscritto, sta in una recente pratica aziendale promossa qualche decennio orsono, anche con la complicità di buona parte delle organizzazioni socialmente impegnate, con il nome di “Responsabilità Sociale di Impresa – RSA”. Quella strategia, ormai adottata dai più nel mondo produttivo, che tutt’ora strizza l’occhiolino all’inossidabile principio del “business is business”. Gli affari sono affari, hanno le loro regole o, sovente, non possono permettersi di averne. Così diffusa da entrare nel dizionario comune alla voce “giustificazione” anche dei quotidiani intrallazzi di piccola taglia di singoli individui.

Da qui, la convivenza pacificata tra l’esproprio delle terre dei campesinos ad opera dei bananieri europei, e il finanziamento di alcune ONG per i loro progetti di sviluppo agricolo in America latina. Tra il trasferimento coatto di intere comunità in Congo per far spazio alle insalubri attività di estrazione petrolifera e le donazioni ad ospedali in Africa. Tra lo sfruttamento disumano di mano d’opera minorile in India e il sostegno offerto a organizzazioni umanitarie attive per la tutela dei bambini. Tra lo sfruttamento delle donne in ogni parte del mondo e l’essere in prima fila nel supportare le campagne delle scarpe rosse.

Un mondo più giusto necessita di “Imprese Socialmente Responsabili”, dove l’inversione della sequenza dei termini è tutt’altro che un gioco di parole; è ben altro che una disputa da Accademia della Crusca. Piuttosto, un agire in coerenza con il principio basilare secondo il quale la massimizzazione del profitto non è un fine intangibile, né giustifica ogni nefandezza buona al suo raggiungimento, ma lo circoscrive dentro il recinto comportamentale delimitato dall’indissolubilità con il contribuire al bene comune e con il rispetto dei diritti di ciascuno.

In altri termini e per rifarci al nostro caso, giustizia vorrebbe che l’attenzione si focalizzasse su quei 1.800 miliardi dei proventi di Leonardo SpA ottenuti agendo nei mercati di morte, piuttosto che lasciarsi ammaliare dal luccichio degli spiccioli elargiti a fin di bene. Il principio di responsabilità deve valere per l’insieme dei processi produttivi, commerciali, economici e finanziari e non solo per i rigurgiti di coscienza provocati da sregolata ingordigia.

Per questo il rifiuto papale di quei milioni di Euro assume un significato straordinario. Trasmette la forza di un sonoro schiaffo morale. Diventa fonte di ispirazione per tutti. Funge da esempio di coerenza ripercorribile su larga scala. Propone un’istigazione a modificare i meccanismi distorti e i percorsi malefici, malamente camuffati dagli scintillii di qualche luminaria di buonismo, per ricondurre a maggior giustezza l’andare delle cose che, per passare di detto in detto, non è sancito debbano andare sempre così.

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