In politica la matematica è purtroppo un’opinione

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I dati economici di un Paese, sono tra gli argomenti privilegiati nella comunicazione politica e tra i numeri più facilmente da essa strumentalizzabili. In particolare, se l’estrapolazione parziale e funzionale di alcuni di essi viene condotta a giustificatoria di analisi e soluzioni utili ad incrementare il consenso di un determinato agire politico.

Tutti hanno ragione e tutti hanno torto”. La percezione e il giudizio degli italiani, assillati da crescenti problemi quotidiani che privano, anche chi volesse farlo, del tempo e delle competenze per sostanziare una valutazione autonoma, è quella sintetizzata in tale ritornello ripetuto in ogni dove. Il risultato, conseguente, è un forte impulso al disamoramento, alla incredulità, alla sfiducia, all’allontanamento dal bla bla dei leader dalle varie colorazioni, o un grande incitamento ad una adesione epidermica, emozionale, fondamentalista, precostituita, becera e acritica alla “squadra del cuore”.

Premetto che continuo a ritenere del tutto improprio argomentare lo stato di benessere di un Paese con i soli criteri economici, mettendo in secondo piano indicatori diversi altrettanto al riguardo significativi. Così come reputo insopportabile il vezzo, diffuso nella maggioranza dei commentatori, di valutare l’efficacia e l’efficienza dell’agire politico, a sostegno del proprio e a discredito dell’altrui, con gli andamenti, le proiezioni e le prospettive dei dati delle economie. Tanto più quando ciò viene fatto riferendosi ai cosiddetti “macro-indicatori”. Questo modo di procedere, oggi, si evidenzia come ancor più opinabile mettendo a confronto qualche numero e alcuni dati riportati da analisi e ricerche di autorevoli istituti.

Facciamo un paio di esempi, tra i diversi possibili, partendo da tre indagini pubblicate quasi contemporaneamente negli ultimi giorni.

A fronte di quello 0,7% di crescita del PIL che ISTAT prevede per i prossimi due anni, dato che appunto viene ripetutamente ascritto all’efficacia dell’azione di governo, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP) rileva come l’incremento dei salari reali degli italiani è sostanzialmente fermo a trent’anni fa, mentre negli altri Paesi OCSE è cresciuto del 32.5%.

Una recente indagine DOXA rileva che gli italiani sono tornati a risparmiare ai livelli del 2006, riuscendo ad accantonare mediamente il 11.5% del proprio reddito nonostante gli alti livelli di inflazione degli ultimi due anni. Contemporaneamente questo dato tipico di una popolazione che “sta bene” si confronta con quelli emersi da un altro rilevamento condotto da FINDOMESTIC relativo ai consumi. Secondo questo Osservatorio, la spesa per l’acquisto di beni durevoli, come case, arredamento e tecnologia e, in primis, autovetture, è cresciuta a livelli record toccando i 75 miliardi di Euro nel solo 2023. Il 9.4% in più rispetto al 2022, quasi ai livelli del pre-pandemia, con un picco del +18.2% per le auto, nel mentre tutti si lamentano dei prezzi schizzati alle stelle nelle concessionarie.

Le apparenti contraddizioni di questi numeri ben si prestano a una comunicativa di parte che sceglie qua e là cosa evidenziare. Peccato che, quasi mai, si restituiscano, né si considerino altri dati indispensabili per un quadro completo. Da fonti diverse, ma all’unisono, giungono rilevamenti indiscutibili sullo stato delle povertà nel nostro Paese, in costante, preoccupante crescita. Sia dal punto di vista quantitativo, sia sotto il profilo delle nuove povertà emerse, come nel caso eclatante dei “lavoratori poveri”. Di quel 10.2% di italiani, cioè, che pur andando ad incrementare i dati relativi all’occupazione, sbandierati come successo delle politiche in atto, rimangono in condizioni di povertà relativa. Lavorano, ma non arrivano alla fine del mese e non ce la fanno a garantire una vita dignitosa alle rispettive famiglie.

Un italiano su 10, il 9,7% per essere precisi, ovvero circa 6 milioni di persone vertono in condizioni di povertà. Eppure la ricchezza nazionale, come visto, cresce. Non esiste altra via di logica se non quella di chiedersi chi benefici della continua crescita economica del Paese. Secondo la rivista “Altraeconomia”, “la ricchezza del 5% più benestante degli italiani (titolare del 41,7% del totale) era superiore, a fine 2021, allo stock detenuto dall’80% più povero dei nostri connazionali (31,4%). La posizione patrimoniale netta dell’1% più facoltoso (che deteneva a fine 2021 il 23,3% della ricchezza nazionale) valeva oltre 40 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana”. Dati eloquenti ancor più enfatizzati dall’andamento negli anni della distribuzione della ricchezza. Stando alle analisi di Openpolis, nel 2021 il 50% degli italiani deteneva solamente il 2.53% della ricchezza a fronte di un 8.62% relativo all’anno 2000, mentre l’1% della popolazione ne possedeva il 23.3% (Altraeconomia).

Credo ce ne sia abbastanza per riflettere e, soprattutto, per agire. Sicuramente da una prospettiva etica. Altrettanto da un punto di vista economico. La ripresa del nostro Paese, come di ogni altro, non può prescindere da un riequilibrio sostanziale di queste disparità. I costi delle politiche improntate a quell’ipotesi definitivamente sconfessata del cosiddetto “Trickle down”, la teoria politica per la quale le povertà si abbevereranno con le gocce tracimanti dal vaso stracolmo della ricchezza dei benestanti, non sono più sostenibili. Le conseguenze sul piano sociale non più prevedibili, né controllabili. Nemmeno con le elargizioni una tantum di “bonus”, buoni per il consenso elettorale, ma inefficaci sull’imprescindibile piano strutturale. Per la casa, per la banda larga, per il carburante, per i mobili, per vacanze, zanzariere, per i giardini, i “Bebè”, gli asili nido e chi più ne ha più ne metta. Senza visione, senza coerenza, senza pensiero lungo. Rovescio della stessa medaglia dei reiterati condoni, edilizi, fiscali, contributivi, esattoriali e chi più ne ha più ne metta. Tutto serve per incassare oggi, accusare ieri e subdolamente scaricare su domani.

Il CENSIS, nel suo 57° Rapporto sulla società italiana riferito al 2023, titola con un perentorio “Sonnambuli ciechi dinanzi ai presagi”, motivandolo con un incipit del Rapporto alquanto eloquente: “Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza. La società italiana sembra affetta da un sonnambulismo diffuso, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti”.

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