Transizione ecologica: dietro front!
Dal prossimo 30 novembre e per 12 giorni, i Governi di tutto il mondo saranno riuniti a Dubai nella COP28 (Conferenza tra le Parti, ovvero l’incontro mondiale sui cambiamenti climatici). All’ordine del giorno, come nelle precedenti COP, la questione principale sarà ancora quella relativa alle azioni da intraprendere per limitare i danni del surriscaldamento climatico mantenendo la temperatura media del pianeta entro un aumento di 2°C, dove la transizione ecologica rimane, sulla carta, l’unica strategia possibile.
Alle ricorrenti pressioni sino ad oggi esercitate dalle lobby delle multinazionali energetiche, sostenute dalle tesi farlocche degli scienziati prezzolati al loro servizio che hanno enormemente contribuito al sostanziale fallimento di 26 delle 27 COP precedenti – l’eccezione va fatta per quella di Parigi del 2015 quando tutti i Paesi firmarono uno storico Accordo, ma malauguratamente ancora oggi ampiamente disatteso – a Dubai si aggiungeranno con tutta probabilità, le nuove reticenze dei Paesi produttori di materie prime di origine fossile. Le argomentazioni, più o meno esplicite e manifeste, dei grandi produttori di petrolio e gas, troveranno facilmente una spalla nei grandi Paesi consumatori e saranno legate a due fattori concomitanti dell’odierna interpretazione della transizione energetica.
In primis, la necessità di sfruttare quanto più possibile gli ultimi anni, e gli ultimi residui di giacimenti e pozzi in via di esaurimento, nei quali sarà consentito estrarre, raffinare e commercializzare i combustibili fossili. I segnali premonitori di ciò sono evidenti da un lato negli aumenti estrattivi praticati dai “Paesi del Golfo” (+10% di produzione di greggio) e dal Qatar che ha programmato un incremento del 60% della liquefazione ed esportazione di gas naturale; dall’altro nella maggior ricerca di autonomia energetica e nella riduzione progressiva degli investimenti negli idrocarburi da parte dei principali consumatori energetici quali USA, Cina e Unione Europea. Spremere fino all’ultima goccia la mammella miliardaria del mercato del petrolio e del gas naturale sarà la strategia dei prossimi anni dei Paesi produttori. I quali, tanto per non rischiare, hanno designato alla presidenza della COP28 Sultan Al Jaber, presidente dall’azienda di stato di petrolio e gas degli Emirati Arabi Uniti, che già negli incontri preparatori e contravvenendo il protocollo delle Conferenze, si è dato da fare per incontrare bilateralmente diversi Paesi con l’obiettivo di assicurarsi pluriennali e milionari contratti di fornitura.
A seguire, il dietro front di molti Governi dei Paesi industrializzati, quindi maggiormente energivori, rispetto alla sostenibilità economica e alla tempistica della transizione ecologica. Forti del consenso crescente dei ceti meno abbienti indisponibili a sopportare ulteriori costi nella già precaria situazione economica attuale, gli Esecutivi di questi Paesi hanno buon gioco a rimandare, o del tutto frenare, le azioni di riconversione energetica dei rispettivi sistemi produttivi e dei modelli di consumo energetico. Gli obiettivi di corto periodo, il tornaconto immediato e la sola prospettiva economica ancora adottati nella valutazione della transizione sono tutt’ora i principali ostacoli per il varo di politiche energetiche di medio-lungo periodo, lungimiranti e responsabili. Tanto da trovare buon gioco nel camuffare gli interessi e le commistioni in essere con gli affari e gli affaristi dell’energia “sporca” con la tutela dei ceti poveri, con la scelta di stare dalla parte dei cittadini e con l’assecondare la volontà popolare. Le semplificazioni della problematica che ne riducono gli effetti al solo aumento dei costi per le famiglie e alle forche caudine dei finanziamenti necessari da spalmarsi sugli incrementi del gettito fiscale, quindi sulle tasche dei cittadini, elidono le alternative non onerose che, invece, sarebbe possibile e opportuno mettere in campo. Nuove regole, una normativa incoraggiante le buone pratiche, gli incentivi fiscali e le premialità da destinare a prassi virtuose, piani urbanistici intelligenti, sostegno alle pratiche agricole sostenibili, rigenerazione dei territori, filiere produttive territoriali sono alcune delle scelte che indurrebbero una transizione “dolce”, ma efficace, senza investimenti economici particolarmente ingenti e dolorosi.
Un esempio concreto di questi giorni, proviene dalla normativa in materia di Comunità Energetiche che il Ministero dell’Ambiente sta finalmente procedendo ad applicare. Pur se con due anni di ritardo rispetto alla normativa comunitaria di riferimento, approvata nel dicembre 2021, è in dirittura di arrivo il Decreto attuativo per la diffusione delle CER che prevede importanti incentivi destinati a tutti i cittadini che vorranno sfruttare la possibilità di divenire produttori-consumatori-venditori di energia elettrica. Una misura che conferma ancor di più nel convincimento che la necessaria rivoluzione richiesta per transitare i modelli energetici verso un orizzonte di sostenibilità, di affrancamento dagli approvvigionamenti esteri e di eco-compatibilità potrà avvenire solo con il contributo individuale dei cittadini, con la modifica radicale dei rapporti di potere tra produttore e consumatore e con l’assunzione di stili di vita individuali e scelte strategiche collettive responsabili.
La transizione ecologica, insomma, non ci sarà certo servita dalle multinazionali cannibale di risorse, territori e denari; né calerà dall’alto per volontà o concessione dei governi di turno. Con tutta probabilità non sortirà neppure dalla Conferenza di Dubai. Essa sarà possibile con un cambio profondo dei comportamenti, degli atteggiamenti, delle scelte individuali quotidiane; con la ricomposizione dei rapporti sociali intracomunitari che si fondano sulla ricerca del bene comune e sulla tutela dei beni comuni per il vantaggio di tutti e di ognuno; attraverso una riconversione dei processi decisionali in meccanismi di compartecipazione e di coinvolgimento dei cittadini e dei corpi intermedi; mediante percorsi di educazione civica e di responsabilizzazione diffusa per i destini delle città e delle comunità.