La politica ha il compito di ricomporre le fratture sociali, non quello di alimentarle

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Una stella di David è dipinta sulla casa di una famiglia ebrea a Milano. A Camporotondo Etneo, in Consiglio comunale, un Consigliere fa il saluto nazista e grida “Heil Hitler”. Alla manifestazione di Roma pro-Palestina un manifestante brucia la bandiera israeliana, a Denver quella americana e a Varsavia i neo-fascisti quella dell’Europa. A Vienna si incendia la sezione ebraica del cimitero e spuntano svastiche sui muri del camposanto. Un Direttore di giornale si scaglia in diretta contro un altro ospite intimandolo di “tirar fuori le palle” per dichiarare “con chi stai”. Un altro inveisce contro le argomentazioni di chi la pensa diversamente urlando insulti al limite della diffamazione. Chi chiede di far tacere le armi e intavolare un dialogo di pace viene accusato di essere filorusso e amico di Putin. Un sindaco alza le mani in Consiglio comunale. Le ONG che salvano vite in mare sono accomunate ai trafficanti di esseri umani. E così via per innumerevoli altri esempi.

O con me o contro di me. Ormai sembra questo l’atteggiamento assunto in ogni dibattito pubblico, in ogni talk show, su qualunque pagina stampata, in sedicenti programmi informativi, dentro le aule parlamentari, nei Consigli comunali o davanti al caffè mattutino al bar. Le conseguenze di una politica urlata e amplificata da media alla ricerca dello scontro per innalzare lo share e sopravanzare la concorrenza, sembrano non placare la singolar tenzone innescata ad ogni piè sospinto in questo nostro tempo polarizzato, cieco di fronte alle evidenze e sordo alle argomentazioni diverse. Ciò che importa sembra l’accaparrarsi una tribuna per incitare ad ancor più radicato odio, ad ulteriore rifiuto di un pensiero altro, ad una polarizzazione delle posizioni tra armate contrapposte. Per far questo, di continuo si invitano a dibattere chi sostiene le posizioni più radicalizzate ben sapendo, escludendo l’ignoranza, dell’impossibilità di conciliazione e della nullità informativa mascherata da democratica discussione. I risultati di queste risse verbali contribuiscono all’enorme successo del Grande Fratello o del Contadino cerca moglie e, ancor peggio, al disamoramento inarrestabile per un modo di far politica che buona parte degli italiani ritiene comune ad ogni parte, tanto da nemmeno più esprimere una preferenza.

In democrazia, è dovere della politica ricomporre le fratture sociali. In democrazia è dovere dei media offrire argomenti e mettere a disposizione fatti che contribuiscono alla creazione di un libero, consapevole e quanto più obiettivo possibile giudizio personale del quale tutti dovremmo dotarci. In democrazia è dovere di ognuno riconoscere il valore del buono e del giusto prescindendo dalla sua origine.

Le conseguenze del clamoroso fallimento di una globalizzazione sregolata e iniqua si evincono dal rifiorire delle separatezze nazionalistiche, delle restaurazioni ideologiche, dell’edonismo menefreghista, dei trinceramenti dietro valori predicati e non praticati, dell’assolutizzazione dei diritti individuali e dell’indebolimento di quelli collettivi. L’affermazione stupefacente e repentina delle formazioni di estrema destra, del fanatismo religioso organizzato, del capitalismo immorale e spregiudicato, del populismo più bieco, del leaderismo spettacolarizzato, delle dittature delle maggioranze e delle tirannie dittatoriali, perfino degli eccessi di una folle disperazione individuale, altro non sono che le forme adottate alla bisogna per fomentare e poi intercettare l’instabilità di quest’epoca fluida nella quale è in atto uno stravolgimento degli equilibri sin qui garantiti, nel bene come nel male.   

Chi la spara più grossa ha il sopravvento; chi denigra si impone; chi si sovrappone ha la meglio. Il dialogo, le argomentazioni, il ragionamento e il dubbio vengono bollati di insicurezza, codardia, pavidità. La logica dei numeri, figlia della forza, e la presunzione di verità, discendente della violenza, sembrano le arti insegnate alla scuola di una politica che scuola non fa più.

“Schismogenesi” la definiscono i sociologi, ammonendo come un sua iperbole possa condurre alla messa in discussione degli stessi presupposti della convivenza per le insanabili fratture sociali da essa alimentate, come ben evidenziato in un recente articolo da Mauro Magatti sul Corriere.

Rompere questo circolo è la speranza che accomuna la ricerca di pace. Interrompere questo refrain è la forza che corrobora la costruzione di una verità condivisa. Spezzare l’escalation delle prove di forza muscolari e delle disfide verbali è la via per ritessere la trama di un tessuto sociale, economico e culturale ricomposto in una policromia sostenibile.

Vale per ciascuno individualmente. E’ doveroso per chi ha la responsabilità di servire la comunità. E’ imprescindibile per la democrazia.

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