“Terre rare”: fronte di guerre e conflitti
Le strategie per l’approvvigionamento in materie prime messe in atto da parte dei Paesi industrializzati, va ben al di là della sola problematica relativa alle fonti energetiche fossili che tanto, giustamente, occupano il dibattito di questi anni. Lontane dalla ribalta mediatica, nel mondo sono in atto veri e propri conflitti per conquistare il mercato globale delle “terre rare” (REE – Rare Earth Elements) o, per i meno fortunati, per garantirsi canali di acquisto stabili ed affidabili.
Le doverose opposizioni al continuo sfruttamento delle fonti fossili, sia per le sue conseguenze connesse all’inquinamento atmosferico, sia dal punto di vista dello sbilanciamento ormai drammatico tra il ritmo del loro consumo e la loro capacità di rigenerazione che lascia prevedere un rapido esaurimento nei prossimi decenni, porta la produzione industriale a virare verso nuove fonti energetiche, per necessità così come per far fronte all’imperativo di mostrare una responsabilità nei confronti della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
Le implicazioni di tali strategie nei conflitti in atto, sono orami norte ai più. Come nel caso delle evidenti connessioni tra approvvigionamento in gas naturale e la guerra russo-ucraina che ha portato il nostro Governo, come altri, ad intensificare i rapporti con altri Paesi produttori come la Libia; oppure, della coincidenza tra conflitto israelo-palestinese e lo sfruttamento del nuovo, immenso giacimento di gas naturale chiamato “Leviathan”: un nuovo “serbatoio” di gas avente una capacità produttiva stimata in 21 miliardi di metri cubi all’anno, in grado di rendere del tutto autosufficiente la Cisgiordania, di mobilitare fin dalla sua scoperta, nel 2019, ENI e Governo italiano e che guarda caso si estende nell’area marina di fronte alla Striscia di Gaza.
Meno conosciute e meno notiziate, invece, le strategie industriali, le relazioni intergovernative, gli assetti geopolitici e i rapporti commerciali inerenti il mercato delle REE e delle “Materie Prime rare” (i Raw Materials della letteratura scientifica).
Lo sfruttamento dei giacimenti di queste “nuove” fonti minerarie è il prezzo da pagare per uno sviluppo tecnologico che procede alla velocità della luce e che per il suo sostentamento necessita di quantità esponenzialmente in crescita di queste materie prime particolari.
La richiesta di ittrio, scandio, lantanio, europio e degli altri elementi chimici ricompresi nei numeri atomici dal 57 al 71 della tavola periodica, unitamente a quella delle “terre rare” necessari alla fabbricazione di fibre ottiche, batterie ricaricabili, microchip, smartphone, touchscreen, hard disk, cellule fotovoltaiche e compagnia bella, negli ultimi decenni ha raggiunto picchi inestimabili solo poco tempo fa. E di conseguenza, ha scardinato equilibri precostituiti, partenariati commerciali precedenti e storiche alleanze politiche caratterizzanti lo scacchiere mondiale solo pochi anni orsono.
Le quantità di questi materiali presenti sulla terra contrariamente a quanto potrebbe indurre a pensare la definizione di “rari” è alquanto abbondante: ad esempio, nella crosta terrestre il cerio è presente tanto quanto il rame e i due elementi più rari della serie (tulio e lutezio) sono 200 volte più abbondanti dell’oro. Ciò che porta a considerarli materie prime rare sono piuttosto i complicati e costosi processi estrattivi richiesti per la loro separazione da altre componenti compresenti in grandi quantità quando prelevati. Acido cloridrico e nitrico vengono impiegati ad altissime dosi nei processi di purificazione con evidenti conseguenze ambientali, oltre che economiche.
Ma al di là delle implicazioni ecologiche, una particolare considerazione va posta nella loro distribuzione geologica e, di conseguenza, economico-politica. Tra i maggiori produttori troviamo poi gli Stati Uniti con il 12,3% circa, il Myanmar con il 10,5% e l’Australia con il 10%; ma in testa alla classifica si colloca la Cina che, da sola, produce circa il 60% delle terre rare mondiali, ne lavora e raffina il 90% e detiene il 37% circa delle riserve mondiali. Ciononostante, nel 2016 il Governo cinese si è trovato costretto a chiudere diversi impianti estrattivi a seguito delle forti pressioni su di esso esercitate da organizzazioni per la difesa dei diritti umani a seguito dei devastanti impatti di tali impianti sulla popolazione e sull’ambiente locali. Motivo per cui, la produzione di Myanmar è oggi principalmente orientata all’export in Cina che non esita ad approvvigionarsi dalle produzioni di miniere illegali aperte nel Paese indocinese grazie alle connivenze e alle corruzioni di quel regime che, nel 2021, ha soverchiato il legittimo Governo guidato dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) finanziandosi con i proventi di tale commercio.
Analogamente, è la presenza di enormi giacimenti di Raw material quali cobalto, nichel e litio in terra africana che contribuisce a comprendere gli enormi interessi delle grandi potenze mondiali nei Paesi del centrafrica come la Repubblica Democratica del Congo. Spesso mascherati con finalità umanitarie, giustificati da nobili ideali di difesa della democrazia e dei diritti umani e innescati in guisa di pacificatori del mondo, gli interventi delle potenze economiche in questi contesti trova una spiegazione ben più logica nell’enorme business delle materie prime rare in grado di determinare gli equilibri politici futuri e la stessa prosperità economica di interi “sistemi paese”.
Lo stesso si potrebbe dedurre per quanto concerne l’atteggiamento tenuto dalle due grandi super potenze Cina ed USA rispetto alla lotta ai cambiamenti climatici. E’ notorio come questi due Paesi, avvalendosi di studi di loro prezzolati scienziati, siano tra i principali oppositori della cosiddetta teoria antropica che imputa in grande parte la responsabilità di questi fenomeni all’azione umana. Lo scontro diplomatico-politico in atto tra le due superpotenze per accaparrarsi i giacimenti di terre rare emersi nell’Artico a seguito dello scioglimento dei ghiacci perenni e del permafrost va di pari passo con l’interesse a negare l’irreversibilità del surriscaldamento globale come da esse sostenuto nelle recenti conferenze mondiali organizzate in tema di cambiamenti climatici. Il gruppo dei Paesi maggiormente coinvolti nelle emissioni di gas serra responsabili dell’aumento delle temperature, da tempo sono coalizzati per ritardare, quando non addirittura bloccare, i processi e le decisioni della comunità internazionale per arrestare il declino del pianeta.
Tuttavia, ciò che ancor più preoccupa al di là di queste implicazioni ambientali, sono le conseguenze dei procedimenti estrattivi su persone e comunità. Come recentemente provato dalla neocostituita Coalizione di oltre 40 Organizzazioni di Società Civile internazionali voluta per monitorare le attività estrattive delle Materie Prime rare, solo negli ultimi 12 anni si sono registrati 510 casi di violazione dei diritti umani connessi all’estrazione di cobalto, rame, litio, manganese e zinco delle quali 133 perpetrate contro difensori dei diritti umani e 49 nei confronti dei diritti di comunità autoctone.
Transizione energetica, progresso tecnologico, nuove frontiere produttive e futuri orizzonti strategici non possono includere un’ennesima esternalizzazione dei costi e delle controindicazioni facendole ricadere di nuovo su popoli e territori altri. In questo contesto spicca l’iniziativa intrapresa da “Shareholders for change”: altra coalizione di Organizzazioni di Società Civile che ha avviato un monitoraggio ed un confronto con alcune importanti società produttrici di auto elettriche, impianti eolici e prodotti chimici, e con alcuni investitori di settore teso a individuare processi e modalità produttive rispettose di individui e ecosistema.
La difesa e la promozione di un benessere futuro non possono contribuire ad ulteriormente divaricare la distanza tra privilegiati e sfruttati, tra ricchi e poveri, tra oppressi ed oppressori. Nemmeno in nome dell’ambiente. Il pianeta terra è unico e indivisibile; la comunità umana è una e interconnessa; le sorti dell’umanità tutta inevitabilmente interdipendenti.