ATACAMA, ovvero il dovere di interrogarci
“Fast Fashion:” ovvero la moda, o meglio il vizio, di sostituire a ritmi sempre più veloci il nostro abbigliamento acquistando o distribuendo vestiario di bassa qualità, spesso composto con materiali sintetici, quindi più economici, ma anche più inquinanti. Un po’ per moda, un po’ come attività promozionale, a volte come gadget, altre per il puro sfizio di vestire in modo sempre diverso e “trendy”.
Ci siamo mai chiesti dove vanno a finire i nostri indumenti dismessi?
In grande quantità, i commercianti di abiti usati scaricano i loro container nel porto di Iquique – nord del Cile andando a ingrandire la gigantesca distesa di vistiti che ricopre le dune sabbiose del deserto di Atacama dove una folla di disperati rovistano alla ricerca di qualcosa da rivendere ai commercianti locali, che poi distribuiscono in tutto il continente sudamericano, o da utilizzare in proprio.
Le condizioni di lavoro di questo moderno girone dantesco, lo sfruttamento criminale di lavoro minorile, la speculazione sulla pelle di chi si accontenta di un “salario” da fame basterebbero a mettere in discussione abitudini e egoismi di molti di noi, convincendoci ad assumere quel minimo di responsabilità verso i meno fortunati solo apparentemente lontani.
Ma oltre queste palesi violazioni dei diritti umani di centinaia di persone, oggi ci interroga imperiosamente l’impatto che i nostri stili di vita hanno sull’ambiente e la natura. Infatti, lo smaltimento dei prodotti invenduti della produzione dell’industria della moda, che oggi immette sul mercato 100 miliardi di capi/anno, e delle 39 mila tonnellate di vestiti giacenti ad Atacama finiscono clandestinamente nel deserto causando un inquinamento formidabile fuori da ogni controllo.
Le autorità cilene, per una volta, si sono fatte carico del problema, almeno in teoria, preannunciando come, presto, nel Paese sarà introdotta una legge sulla “Responsabilità diffusa”. Cioè, misure che prevedono la compartecipazione dei costi di smaltimento delle produzioni da parte degli stessi produttori.
Un deterrente che si spera porti ad una maggior responsabilizzazione di chi produce verso l’ambiente che, anche se motivata ancora una volta da calcoli economici, potrebbe servire alla preservazione dell’ambiente.
Sempre che, quello della “Responsabilità diffusa” diventi un principio universalmente applicato e complementare all’imprescindibile impegno individuale di ognuno di noi nell’adottare stili di vita più sobri e più responsabili verso l’ambiente e le persone di qualunque parte del pianeta.