Conflitto in Medio Oriente: serve un Tribunale speciale come per il Rwanda
Il diffuso utilizzo dell’accusa di genocidio rivolta al Governo Netanyahu per quanto messo in atto nei confronti del popolo palestinese, riporta – oggi in modo particolare – a quanto accaduto esattamente 30 anni orsono in terra d’Africa.
Alle ore 20.20 di quel lontano 6 aprile 1994, un missile colpisce il Falcon che trasportava il Presidente della Repubblica rwandese e quello del confinante Burundi, entrambi di ritorno da un Conferenza per la pace tenutasi ad Arusha in Tanzania. Poche ore dopo, come una bomba ad orologeria innescata da lunghissimo tempo, inizia il massacro di oltre 800mila persone nel Paese delle Mille colline. Le comune appartenenza all’etnia “hutu” dei due Presidenti assassinati, la sobillazione di massa immediatamente messa in atto dalla televisione di stato, decenni di soprusi e vessazioni impartiti dai quelli che saranno stigmatizzati come “scarafaggi da schiacciare” – gli appartenenti all’altra etnia coabitante, quella dei “Tutsi” – fecero in modo che con efferatezza, crudeltà e capillarità mai più riviste dopo lo sterminio del popolo ebreo ad opera dei nazisti, i Tutsi e gli Hutu “moderati e conniventi” furono sterminati con precisione chirurgica.
Un buco nero nella storia contemporanea ancor più reso lugubre e profondo dall’inconsistenza, o insabbiamento, delle indagini per la ricerca dei mandanti dell’attentato che in molti identificano con il Governo francese dell’epoca; dall’inazione totale del Governo belga detentore di enormi interessi e capitali nel Paese; dall’inefficienza gravissima delle Nazioni Unite intervenute in colpevole ritardo e malamente; dalla successiva presa del potere di un dittatore tutt’ora al potere, a sua volta accusato dalle istituzioni francesi di essere l’organizzatore della strage, grazie al continuo colluso sostegno di molte potenze occidentali, Stati Uniti in testa.
In tale desolante scenario, unica nota di speranza risiede nel fatto che, con la strage rwandese, per la prima volta viene riconosciuto dalle istanze giudiziarie internazionali il crimine di genocidio. Il “Tribunale penale internazionale” istituito per indagare sulla strage, nel 1995 condannò all’ergastolo uno dei più crudeli “macellai” a capo della strage – Jean-Paul Akayesu borgomastro della cittadina di Taba – con l’accusa di “genocidio”.
A partire da questa storica sentenza, i Tribunali speciali successivamente istituiti dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja in occasione di altre “stragi” e uccisioni di massa – come nel noto caso della Ex Jugoslavia – hanno annoverato tra i reati perseguibili quello di “crimine di genocidio”. Quel crimine che, recentemente, ha portato la stessa Corte ad emettere il 17 marzo 2022 un mandato di cattura per Vladimir Putin e una sua collaboratrice – caso al contrario già fagocitato dalla superficialità mediatica –all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina. L’accusa formulata: deportazione illegale e trasferimento illegale di bambini dall’Ucraina occupata alla Russia.
A prima vista, verrebbe da chiedersi cosa azzecca un simile capo d’accusa con il crimine di genocidio. Ebbene, ai sensi della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, adottata dalle Nazioni Unite nel lontano 1948 all’indomani del processo di Norimberga, per genocidio si intende aver commesso anche una sola di queste azioni: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e, per l’appunto, trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
Stessa reazione potrebbe sorgere alla domanda del perché si esiti così tanto a stigmatizzare di genocidio l’azione di Israele nei confronti dei palestinesi. Nonostante un Rapporto pubblicato lo scorso mese di marzo dalle Nazioni Unite, la cui redattrice in capo è stata bollata come antisionista da Tel Aviv che ne ha immediatamente chiesto le dimissioni, al di là delle comprensibili e condivisibili reazioni “popolari”, la determinazione di crimine di genocidio non può che essere stabilita da uno dei suddetti Tribunali penali internazionali istituiti ad hoc. Ma nel caso di Israele, guarda caso, sebbene le efferatezze e la “sproporzionata reazione” al criminale attacco di ottobre siano sotto gli occhi di tutti, ma proprio tutti, nulla si muove. Una volta di più, gli interessi, soprattutto economici, in gioco, hanno sopravvento sulla giustizia e, ancor più grave, dimostrano la cieca capacità di convivere con una strage – che sia o meno genocidio – che sta annientando un intero popolo; che sta uccidendo migliaia di civili, donne, bambini, anziani e qualche “terrorista”; che fa “inorridire” la Presidente di Medecins Sans Frontières, sempre in prima linea per soccorrere le vittime del conflitto, e il suo Direttore italiano reagire con un lapidario “non ho mai visto nulla di simile”. Espressioni che mi riportano dolorosamente alla memoria le reazioni di quell’eroe che fu il Console italiano dell’epoca a Kigali Pierantonio Costa, con il quale ho avuto all’epoca il privilegio di collaborare, che da solo e senza attendere disposizioni “dall’alto”, rischiò per mesi la vita nel salvataggio di oltre 2mila persone dalla follia dello sterminio.
Ciò che urge, oltre evidentemente ad un immediato cessate il fuoco, è proprio la decisione delle Nazioni Unite di istituire un Tribunale Penale speciale. Impresa ardua, ma non impossibile. In questo, Italia ed Unione Europea potrebbero giocare un ruolo da protagonisti. A patto che non siano corrispondenti al pensiero dell’attuale maggioranza di Governo i giudizi reiterati da un quotidiano come Il Foglio, risaputamente “ben informato”, che ha definito la citata ONG umanitaria come “grancassa di Hamas”. A patto, forse, di poter contare su altri diplomatici “disobbedienti” come lo fu nel 1994 Pierantonio Costa.