Che la memoria non ci difetti

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24 marzo 1980: il giorno dopo la domenica delle palme di 44 anni fa una decapottabile rossa si ferma davanti alla cappella della Divina Provvidenza a San Salvador; Monsignor Romero sta celebrando la Messa; spunta un fucile dal finestrino posteriore; un solo colpo; al cuore. Romero crolla ai piedi dell’altare. Il sicario può incassare i 114 dollari di ricompensa.  

Nonostante il diritto canonico riconosca inequivocabilmente “martire” – quindi “santo” – chi viene giustiziato nell’atto di celebrare un sacramento, ci vorranno 35 anni di manifestazioni della società civile di tutto il mondo, di richieste formali e implorazioni popolari, prima che la Chiesa riconosca tale Oscar Romero. Ci vorrà papa Francesco perché finalmente nel febbraio 2015 questo testimone della pace, della rivoluzione non violenta, questo simbolo della resistenza pacifica di tutti i popoli contro la prepotenza dei signori della guerra, del potere e del denaro venga innalzato agli onori degli altari.

In questo giorno, il pensiero non può che tornare al Sudamerica e ai tanti altri martiri il cui coraggio non si è arreso alle centinaia di omicidi, assassini, torture, imposti alla “loro gente” dalla brama di potere fondato sulla follia guerrafondaia. Non può che rievocare l’incontro avuto poche settimane prima di quel 16 novembre 1989 con il Rettore dell’Università Centroamericana (UCA) Ignacio Ellacuria assassinato quel giorno con altri cinque martiri gesuiti – Segundo Montes, Ignacio Martin Barò, Amando Lopez, Juan Ramon Moreno, Joaquin Lopez – sempre per mano di militari squadristi al soldo dei poteri nordisti e dei loro emissari dei Sud del mondo. Non può che correre agli oltre 50 conflitti oggi ancora accesi ai quattro angoli del pianeta.

Il bombardamento mediatico al quale siamo da mesi sottoposti circa le due guerre del nostro “cortile di casa” e l’assordante silenzio dell’informazione sulle tragedie solo un po’ più lontane dai nostri immediati interessi o dalle nostre epidermiche paure, pur se comprensibile non è di certo giustificabile. Soprattutto di fronte all’immancabile esaltazione di questa o quell’altra giustificatoria della guerra come strumento di raggiungimento della pace. Se così fosse, allora, andrebbe spiegata l’orrenda discriminazione tra le vittime di serie “A” e quelle meno “blasonate” che crepano allo stesso modo e per stessa mano solo un po’ più lontano.

Non vorrei che anche in tale drammatico contesto, sopravanzi il becero provincialismo predicato in molte circostanze e induttore della cultura del “ognuno pensi a sé stesso” o tutt’al più agli affari che interessano da vicino. Gli altri … se la sbrighino, ne abbiamo abbastanza dei nostri di casini. Oppure, al contrario, ci venisse spiegata la valenza di vertici mondiali e di assise dei “leader mondiali” come gli incontri dei G7-G8 – a seconda degli umori verso la Russia – il prossimo dei quali si terrà in Puglia sotto la presidenza italiana, sempre magnificati come strumenti di definizione di politiche e di strategie per lo sviluppo pacifico, sostenibile, solidale, prospero, inclusivo e per tutti nel mondo.

In questo giorno il pensiero non può che varcare ancora una volta l’oceano come fisicamente fatto decine di volte nel tentativo di essere lì, al fianco degli oppressi e degli sfruttati di ogni dove; nella consapevolezza di risolvere nulla; nella certezza di doverlo fare non fosse che per aggiungere una sola goccia di olio allo stoppino della speranza di un domani diverso. E andare a Port au Prince devastata da una guerra fratricida alimentata dagli interessi o dal menefreghismo statunitense; a Khartum dove si muore dimenticati da dio e dagli uomini; a Bamako, Lagos, Mogadiscio, Ouagadougou prede della follia della guerra santa; all’amata Bujumbura paradiso in terra da decenni paralizzato da un guerra civile ondivaga e mai sopita; a Naypyidaw, Manila, Dacca, New Dhely; o alle pur vicine Damasco, Kabul e Teheran precipitate nell’oblio mediatico allo scoppiare della faida israelo-palestinese.

Questo giorno, per la Chiesa cattolica, è la Giornata di preghiera e digiuno per tutti i missionari martiri. Mi piace pensare che oggi si pensi a quelli stampati sui calendari e a quelli mai nominati; con la tonaca o con il poncho; con il crocifisso o il kalashnikov; a quelli venerati e a quelli che vivono nell’animo della loro gente e di chi ha avuto il privilegio di conoscerli. Un giorno dove ringraziare chi per “missione” si è sacrificato o ancora lotta per una maggior giustizia, per la pace e un futuro vivibile per tutti. E per far questo, per fare memoria, ci viene chiesto di prenderne il testimone e continuare la staffetta verso quel traguardo che solo agli ignavi sembra irraggiungibile. Per quanto ci è dato.  

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