La protesta degli agricoltori tra giustizia e ipocrisie

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La protesta degli agricoltori europei è una battaglia sacrosanta. Piena di ragioni. Supportata, come tutte le battaglie combattute da un popolo per la sua sopravvivenza, da enormi, condivisibili, giuste motivazioni. Quelle motivazioni che hanno a che fare con un futuro incerto, fosco, insostenibile. Una battaglia che in Italia avrebbe dovuto iniziare molto prima. Prima che degenerassero a tal punto le condizioni nelle quali si trovano oggi migliaia di famiglie che da decenni si vedono ripagare un lavoro duro, faticoso, ingrato, con un tradimento della politica che ha tracciato le sorti del nostro Paese. Da quando, nell’immediato dopoguerra, i decisori italiani hanno puntato sullo sviluppo industriale per un Paese privo di qualsivoglia materia prima da esso richieste, deficitario di risorse energetiche, culturalmente radicato in un territorio e in tradizioni rurali, ricco di sole, di sapere contadino e di biodiversità. Da quando i medesimi decisori hanno applicato le regole di quella stessa logica industriale ad un comparto produttivo che nulla ha a che spartire con essa; fatto di rapporto con la terra; cadenzato da ritmi e regole incompatibili con le velocità di una crescita possibile per la finanziarizzazione di economie altre; che si ribella alle forzature accelerate della esasperazione produttiva e dello sfruttamento del territorio.

Tuttavia, quanto oggi sta riempiendo le pagine dei media, i titoli dei telegiornali e gli accorati commenti dell’intero popolo “social” mette in luce ipocrisie e contraddizioni di non poco conto. Parlarne, come spesso in condizioni simili, rischia l’impopolarità, il pubblico linciaggio e la lapidazione di massa.

Sarà forse questo il motivo per cui i templari delle salviniane crociate si sono immediatamente schierati a difesa di uno dei loro maggiori bacini elettorali. Dimenticandosi, per così dire, di come non più di tre mesi orsono, precisamente a novembre 2023, siano stati i più agguerriti sostenitori del pugno di ferro a fronte di qualunque atto che ostacolasse o, peggio, impedisse, la libera circolazione su strade e autostrade in nome del diritto dei lavoratori di raggiungere le rispettive sedi occupazionali. Dimenticandosi, per così dire, di precisare in quel “pacchetto sicurezza” che tali norme fossero da applicarsi solamente nel caso di facinorosi contestatori, di pericolosi eco-ambientalisti assembrati nei sit-in stradali; non di certo a trattori, trattoristi e vacche che anche oggi hanno bloccato qua e là per il Paese interi accessi autostradali.

Il bersaglio su cui riversare la sassaiola di proteste, critiche, rivendicazioni è stato individuato nella Unione Europea e nella sua Politica Agricola Comune (PAC). Responsabile di ignominiose vessazioni. Artefice di norme inapplicabili. Ostaggio di burocrazia e orpelli insopportabili. Dimenticandosi, per così dire, delle pressioni che le grandi multinazionali dell’agro-business hanno esercitato per orientarla alle logiche del profitto, del progresso irresponsabile, della produttività spinta ai massimi livelli, delle premialità concesse ai grandi proprietari terrieri, dell’indifferenza quando non della insensibilità verso il rispetto della natura, della terra, dell’ambiente e dei destini del futuro. Predicando ad ogni piè sospinto globalizzazione, liberalizzazioni, privatizzazioni, libere concorrenze e libero mercato quali ingredienti di una ricetta miracolosa per garantire benessere e progresso per tutti. Salvo poi, come oggi confermato, esigere interventi del più puro statalismo a difesa dei prezzi, a sostegno di produzioni e remunerazioni, a tutela dei prodotti tipici italiani, in coerenza con il tanto vituperato protezionismo, contro l’usurpatore straniero colpevole di agire esattamente in siffatta maniera. La concorrenza dei prodotti importati dai Paesi dei Sud del mondo, si sostiene, è sleale perché non rispettosa delle norme e degli standard, compresi quelli ambientali, richiesti dalle leggi europee e imposte ai suoi produttori. Dimenticandosi, per così dire, che il commercio internazionale delle derrate alimentari è pressocché totalmente controllato e agito da società e imprenditori della tanto bistrattata Europa, spesso proprio approfittando di quel lassismo di norme di altri Paesi che tanto profitto genera. Non di certo dai loro “omologhi” produttori in stato continuativo di peggiore, irrimediabile disperazione, a loro volta sfruttati dagli stessi affaristi e dai medesimi meccanismi che affamano gli europei agricoltori.

La remunerazione del lavoro è definitivamente insufficiente, giustamente si urla dalle quattro ruote motrici delle potenti, spesso sovradimensionate, trattrici ribelli. Dimenticandosi, per così dire, che stando alle analisi della Coldiretti, oggi a capo del sollevamento contadino, ciò non è massimamente imputabile alle istituzioni di Bruxelles, quanto piuttosto ad una distribuzione del valore aggiunto della filiera agricola che vede i suoi quattro quinti finire nelle mani della grande distribuzione e delle industrie alimentari, che agricoltori proprio non sono, lasciando le rimanenti briciole a chi, producendo, si sobbarca la maggior parte degli oneri, del lavoro, dei rischi di produzione e della fatica. Ancora dimenticandosi, per così dire, gli altisonanti proclami per il grande risultato raggiunto, solo lo scorso anno, dalla stessa associazione di categoria quando siglato un accordo con la multinazionale Mc Donald per la vendita di sola carne italiana negli infiniti punti di diseducativo consumo alimentare tanto frequentati da schiere di famiglie compatriote per imbonimento di ignari figli al seguito. L’importante è l’italianità, il made in Italy, la tutela delle produzioni tipiche, i marchi di origine garantita. Poco importa se dietro a tutto ciò, si cela uno dei principali artefici della crescente deforestazione globale. Poco importa se l’alleato è tra i maggiori responsabili dell’arrembaggio piratesco alle terre fertili d’oltre mare e della conseguente segregazione dei piccoli agricoltori locali in quelle marginali e improduttive. Poco conta se tutto ciò maschera lo sfruttamento, ormai conclamato, di chi esige dalle proprie maestranze, a ripetizione e in condizioni disumane, di sfornare “piatti tipici italiani” come i muffin, di impacchettare fish and chips, di confezionare nuggets o mungere frozen yogurt di certo non dalle mammelle di podolici bovini. Stupendosi, poi, se molti versanti nelle stesse condizioni disperate dei trattoristi incazzati, a causa di analoghi meccanismi applicati ad altre filiere, si accontentano del Parmesan, del Prosek, della Mortadela, del Jambon che trovano a bizzeffe, in nutrito assortimento e diversificata foggia, a prezzi accessibili sugli scaffali di Supermercati e Discount. Gestiti da lodati imprenditori italiani ed europei, giusto per dovere di precisazione.

La loro indignazione per i soprusi inferti agli eroi della terra garanti del nostro pane, come definiti in queste settimane da inedita empatia popolare, sta rimbalzando da un social all’altro. Tutti solidali. Tutti quasi a spingere quei trattori in una moderna marcia su Roma.  Tutti bucolicamente amanti del duro lavoro dei campi. Dimenticandosi, questa volta verosimilmente, delle proteste e delle sbraitate rimostranze all’incremento di qualche decino di euro dello scontrino alle casse dei frequentati ipermercati. Senza battere ciglio per i tre Euro al litro di una mistura industrializzata di acqua, zucchero e caffeina, ma rivoltandosi al prezzo valutato inaccettabile della fatica, della sapienza, della pazienza, delle incertezze e dei rischi tappati in una bottiglia di vino, dentro una tanica di olio extravergine, nelle disertate spinatrici di latte alla stalla, in una latta di pelati mantenuta a prezzi ridicoli dal sudore di stranieri sottopagati, caporalati e per di più indesiderati.

Ed allora prendiamocela con le norme ambientali. Attacchiamo il Green Deal. Riversiamo buona parte delle colpe sulla insulsaggine di utopici traguardi di sostenibilità imposti da europea burocrazia e comunitaria autoreferenzialità. Via libera agli Organismi Geneticamente Modificati. Proroga all’utilizzo del velenoso Glifosate. Stop alla decisione di destinare il 4% (non è un errore) della superficie coltivabile di ogni azienda agricola europea alla rigenerazione della biodiversità faunistica e botanica. Animali, piante e future generazioni non possono scendere in piazza. Non possono occupare strade e caselli autostradali.

La richiesta di sostegno che gli agricoltori avanzano alla politica nazionale e comunitaria è più che giustificata e più che giusta. Gli investimenti riversati nell’industria italiana (Stellantis-FIAT docet) fossero equiparabili a quelli in agricoltura porterebbero a tutt’altra situazione. Chissà se la partecipazione all’ultima kermesse di Atreju del Presidente Coldiretti Prandini produrrà i frutti sperati. Ognuno ha la libertà di scegliersi i compagni di viaggio e, in guerra, gli alleati. A patto che renda chiaro alle truppe quale sia il vero nemico da combattere.

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