Accoglienza diffusa: oltre gli steccati, i pregiudizi e le paure

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Sottoscrivendo un “Patto per ‘accoglienza diffusa” 20 Comuni dell’Alto Vicentino testimoniano con fatti concreti la possibilità di gestire in modo diverso l’arrivo degli immigrati sul nostro territorio. Nessuno stato d’emergenza, nessun allarme sicurezza.  Approccio strutturale, partecipazione e visione aperta fanno di ciò che per alcuni è solo un problema da evitare una risorsa da valorizzare.

Sono 20 Comuni amministrati da Giunte di opposto orientamento politico, ma che di fronte ad una problematica che investe i loro territori non hanno esitato a mettere da parte ideologie, tessere di partito, arroccamenti pregiudiziali e partigianerie ricercando e trovando insieme soluzioni positive. 

L’iniziativa, inserita nel più vasto progetto “La tenda di Abramo” avente come capofila il Sindaco di Santorso Franco Balzi, dimostra come sia possibile agire nell’interesse della cittadinanza e anteponendo i diritti delle persone a qualsivoglia altro interesse: un esempio che potrebbe e dovrebbe servire all’intero Paese, dalle altre Amministrazioni locali fino al Governo nazionale, dalle comunità cittadine fino all’intera nazione italiana.

Il contesto che ha favorito il positivo risultato di accogliere e integrare nel tessuto locale persone straniere fino al 3xmille delle rispettive popolazioni comunali, è senz’altro determinante. Il dialogo instaurato nel corso degli anni tra società civile e istituzioni pubbliche e, soprattutto, la disponibilità e l’interessamento di autorità sensibili hanno reso possibile trasformare quello che comunemente è ritenuto un problema emergenziale in un’opportunità per il territorio. Prefetto, Vescovo, Sindaci, Responsabili di Organizzazioni di Terzo Settore, Dirigenti di Associazioni di categoria si sono coalizzati nell’attuazione di un sistema di “accoglienza diffusa” che, ripartendo la responsabilità del farsi carico delle persone straniere in arrivo, stanno dimostrandone l’efficacia, la sostenibilità e l’umanità.

Niente centri di detenzione, niente fili spinati, nessun ammassamento disumano in strutture uniche e riservate, minori costi per i Bilanci comunali e, come se non bastasse, maggiore sicurezza per le comunità locali. Sono questi i principi di base del “Patto di accoglienza diffusa” sottoscritto dai 20 Comuni citati e che si sta diffondendo in tutta Italia. Immobili sfitti, strutture comunali inutilizzate, locali parrocchiali, case messe a disposizione da privati cittadini, sono gli spazi adibiti all’accoglienza degli stranieri migranti e il risultato tangibile della funzionalità di un approccio condiviso, di una partecipazione estesa e di un modo di amministrare i territori fondato sulla responsabilizzazione dei cittadini, delle loro realtà organizzate e sulla condivisone dei poteri e dei percorsi decisionali. Anche quando si tratta di decidere come investire ed utilizzare al meglio le risorse messe a disposizione a livello nazionale e regionale.

Un modo diverso di amministrare i territori, un protagonismo dei Comuni – veri primi attori di quel protagonismo locale tanto predicato dagli smemorati antagonisti della “roma ladrona”, con in testa il Sottosegretario Molteni che ora dal Viminale punta e investe sui centri regionali di accoglienza – che si va diffondendo a macchia d’olio nel Paese.

Il fenomeno migratorio non va subìto, ma va invece gestito dai Comuni, che devono avere un ruolo diretto, e devono essere interlocutori privilegiati dello Stato e delle Prefetture. Non basta fare accoglienza: bisogna fare anche una buona integrazione”: con queste convinzioni il Sindaco Balzi, primo promotore dei “Patti”, non ha esitato ad andare oltre il semplice dovere di accoglienza. Coinvolgendo le Associazioni di categoria, da tempo pronunciatesi rispetto all’urgente necessità di integrare la carente mano d’opera italiana con maestranze di origine straniera, nei 20 anni di esperienza nell’accoglienza di stranieri i comuni dell’Alto vicentino, con buona pace delle valutazioni sulle potenzialità di accoglienza dei piccoli Comuni del Sottosegretario canturino, hanno saputo gestire 800 immigrati, molti dei quali oramai pienamente integrati nel tessuto produttivo locale. Anche nel caso dell’emergenza ucraina a fronte della quale, con lo stesso approccio partecipativo, sono riusciti a sostenere l’onda d’urto dell’improvvisa marea dei numerosi fuggitivi dal fronte di guerra europeo, nonostante i tagli dei trasferimenti di risorse ripetutamente inferti ai bilanci comunali dal Governo centrale.

Mi rendo conto che i prossimi mesi di campagna elettorale, già entrata nel vivo o mai interrotta, saranno i meno propizi per il sopravvento della ragionevolezza sulla propaganda. Sono consapevole della maestria con la quale strumentalmente si inculcano le paure e si inaspriscono gli animi di persone e famiglie in verità attanagliate da ben altri problemi. Conosco molto bene i meccanismi per incassare a breve intercettando, come si suol dire, la “pancia del Paese” magistralmente riempita con le tossine dell’odio, della diffidenza, della discriminazione e dell’autoreferenzialità.

Altresì, non posso fare a meno di riflettere sulle ostinazioni ideologiche, le presunzioni individuali, i deliranti sensi di onnipotenza o sulla neutralità di comodo, l’esorcizzare i problemi, il rimpallo di responsabilità, il non metterci la faccia in prima persona che sembrano caratterizzare questi nostri tempi.  La prevalenza di simili comportamenti sulla ricerca del bene comune rimane un ostacolo rilevante in un numero consistente di amministratori e si va affermando con sempre maggiore decisione nelle dirigenze delle organizzazioni di società civile. L’esperienza insegna che l’abuso di terminologie porta con sé lo svuotamento del loro significato profondo. Da tempo immemore non si fa che parlare di “lavorare in rete”, da ogni parte giungono echi di consultazioni e co-progettazioni, in qualunque contesto e ad ogni livello pubblico e privato altro non si evoca che coinvolgimento e partecipazione. Troppo spesso la pratica di tutto ciò abdica alla retorica di un Pubblico di buona maniera e di un privato imploso in collateralismi imbavaglianti.

Divulgare esperienze positive dentro le fomentate negatività, diffondere buone pratiche tra le infondate paure, parlare di persone perbene come i promotori de “La tenda di Abramo” dell’Alto vicentino e di un numero crescente di altri Comuni italiani è un modo per continuare, per quanto ci è dato, a fare di tutto per convincere i più della possibilità, della positività e della lungimiranza di un modo diverso di fare le cose, di affrontare i problemi, di amministrare i beni e di esercitare le responsabilità che abbiamo assunto o che ci sono state attribuite.  

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