Quest’estate africana

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Clima, temperature tropicali, eventi e drammi, fatti e notizie: questa estate 2023 riporta prepotentemente il continente africano nell’agenda internazionale e in quelle delle nostre case.  

Cercando di non farmi abbrustolire i neuroni dal sole di queste ultime settimane, i record rilevati sul termometro dell’orto hanno riportato alla mente volti conosciuti oltremare e qualunquistici giudizi di ingnorantesca brianzolità. In particolare nelle giornate nelle quali quei pochi agricoltori rimasti in zona manovravano i loro sovradimensionati, iper-energivori, machisti trattori per eseguire il secondo taglio del fieno: il “vustan”, infrapposto in agosto tra il “magent” del mese mariano e il “terziroeu” che, stagione permettendo, consente un buon raccolto anche a settembre.

Claustrofobicamente rinserrati nelle loro cabine condizionate, i mietitori meccanizzati dei nostri tempi hanno animato le strade cittadine liquefatte dal solleone e desertificate dall’esodo massivo dei tanti ammassatisi nelle mete turistiche di ogni dove. Si perché gli agricoltori non possono permettersi il giusto diritto di abbandonare il campo nei mesi più caldi, quest’anno, torridi. Come l’ottanta percento degli africani che ancora oggi campano di agricoltura. Senza aria condizionata. Senza trattori. Mulinando zappate da mattina a sera per cavare quel poco sostentamento offerto da una terra avara, ben diversa da questa Brianza benedetta da dio dove, senza merito alcuno, abbiamo avuto la fortuna di nascere. Neppure potendo contare sulla riduzione dell’orario di lavoro, quando non della totale sospensione dei cantieri, opportunamente decretato dal legislatore italiano per i settori più esposti all’escalation delle temperature estive. Qualche pur rapida applicazione individuale o, almeno, qualche pensiero sensatamente più solidale eluderebbe dal vernacolo locale le bollature di “scansafatiche senza voglia di lavorare” spesso indirizzate a chi costretto a lavorare sotto il sole di questo agosto, africani malvolentieri incrociati compresi costretti a queste condizioni per 12 mesi all’anno.  

Anche quando alcuni, per privilegiato diritto conquistato e goduto, dovranno incappare in tale situazione fuoriuscendo occasionalmente e artificiosamente dai meravigliosi “villaggi” allestiti come inviolabili cupole spendenti nelle località turistiche in terra africana. Così, sicuramente indossando abbigliamento consono con la cultura locale, come appreso da recente serenissima ordinanza sindacale, occhieggiare con sguardo di commiserevole compassione la realtà di quei poveri che spesso mangiano meglio dei ricchi, forse perché non sottoposti allo stress degli arrembaggi famelici alle pantagrueliche tavole dei buffet in riva all’oceano.

Si vede che tali ministeriali demenzialità hanno raggiunto anche i popoli africani. Non si spiegherebbe altrimenti il dato che a fronte dei 100mila migranti sbarcati in Italia in questo 2023, 40 milioni di africani hanno “optato” per altra destinazione. In Sudan, si contano 7.3 milioni tra sfollati e rifugiati; 7,1 milioni in Repubblica Democratica del Congo; 5,1 in Somalia; 4 in Nigeria e 2 in Burkina Faso. Tutti Paesi così poveri e malmessi che, nonostante la ben nota facilità con cui far quadrare le rispettive Leggi di Bilancio, a quanto pare garantiscono un cibo migliore.

Questo, allora, spiega finalmente l’enigma del perché in Italia giungano solamente i criminali, come da altra ministeriale demenzialità, aiutati dalle complicità di chi passa le vacanze in nave come regatisti che solcano il Mediterraneo sotto mentite spoglie di operatori umanitari. Le fake news, abbiamo imparato, se opportunamente divulgate e insistentemente ripetute sostituiscono le notizie veritiere; da noi, la durabilità della memoria sembra abbassarsi più rapidamente degli indici economici del nostro Paese, tendenza presidenzialmente intercambiata con la risalita dei tassi dei mutui e dei prezzi dei carburanti, guarda caso coincidente con quel giusto diritto feriale goduto da milioni di italiani che mangiano un po’ meglio di altri.

L’obbrobrio, la condanna e il ribrezzo per gli atti di violenza, nella maggioranza dei casi perpetrata su donne, agiti da stranieri non giustifica la parzialità dell’accanimento mediatico con la quale i notiziari omettono altrettanti e ben più numerosi crimini e delitti quotidianamente commessi da italiani su italiane; dentro case italiane; in famiglie legittime e regolari. Salvo quando la brutale bestialità del branco assume toni acutissimi e suscita perversi interessi degni di popolare rotocalchi, talk show e mercatini di ambulanti tribuni catodici.

L’imbecillimento in atto e l’imbarbarimento in corso alimentato da un provinciale continuo battibecco degli opinion leader popolari, fa sì che, per i più attenti, in queste settimane l’Africa abbia scalfito la nostra attenzione per un paio di notizie. La prima a riguardo della fine di Prigozhin, il capo della famigerata divisione Wagner, quindi per un accadimento direttamente connesso con i destini del nostro continente europeo e le preoccupazioni che ci riguardano da vicino.

Vicenda oscura anche per i migliori analisti politici, da annoverarsi tra i tanti, troppi segreti che rimangono rinchiusi nei cassetti del potere, la presenza dell’ex braccio armato di Mosca in Niger, ma anche in Repubblica Centrafricana e Mali, punta nuovamente i riflettori sugli sfruttamenti, le interferenze, gli interessi, le violenze che, dal colonialismo in poi, mai l’Occidente ha interrotto in terra d’Africa. Come mortifere maree, gli espropri impoverenti attuati dagli Stati “sviluppati” si sono succeduti in tutti i Paesi africani. Al banchetto imbandito con le immense risorse naturali del continente, il numero dei commensali cresce, aumentato dai nuovi padroni dei poveri. L’azione dei mercenari della Wagner è solo quella più sfacciata e ultimamente notoria tra quelle delle tante altre milizie paramilitari più o meno occultamente sostenute dai politici “per bene” reggenti le democrazie occidentali. Sembra quasi che sia solo l’attenzione di cronaca, per di più interessata, a portare dentro le nostre case i problemi e i drammi quotidianamente vissuti da decine di milioni di persone colpevoli di vivere un po’ più distanti dai nostri confini.

La seconda notizia, in verità meno ribattuta, attiene alla riunione tenutasi a Johannesburg dei cosiddetti BRICS. Acronimo definitivamente superato dalle ultime decisioni assunte in Sudafrica i giorni scorsi, BRICS stava a rappresentare il tentativo di alcune nuove super potenze mondiali di contrapporsi allo strapotere inveterato dei Paesi del G7. Ai fondatori Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, dal prossimo gennaio 2024 si aggiungeranno Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Quattro Stati africani andranno ad affiancare il Sudafrica rimpolpando lo schieramento emergente africano di questa nuova, ma non per questo migliore, coalizione globale. Subitaneamente stigmatizzata con un sarcastico “non sapranno mai mettersi d’accordo” dalle milizie mercenarie degli opinionisti di turno, come se le vecchie potenze dimostrassero di poter fare di meglio, lo scacchiere internazionale si avvia verso un nuovo corso con il quale, prima o poi, tutti dovranno fare i conti.

Così, giusto per fare un paio di esempi non potendoci dilungare in ulteriori aspetti del caso, la rivendicazione di quei 100 miliardi di dollari promessi dai Paesi industrializzati quale fondo compensativo per l’adattamento alla transizione energetica e la lotta ai cambiamenti climatici assumerà un ben più forte potere contrattuale. Oppure, l’esigenza delle risorse per attuare la promessa mai mantenuta di sconfiggere la piaga della povertà nel mondo, avrà sicuramente molta più perentorietà, anche se dovranno mangiare un po’ meno bene. O ancora l’appoggio militare e la vendita di armi all’alleato del momento non sarà più solo prerogativa di chi sino ad ora ha lucrato di questo mercato.

Saranno richieste spinte da inedito impeto etico? Credo proprio di no. Conoscendo bene, come tutti, i governi e i regimi dei vecchi e dei nuovi BRICS difficile ipotizzare un loro incamminamento verso Damasco. Purtroppo, spesso, la rabbia e il risentimento offuscano la razionalità, figuriamoci la giustizia, innescando reazioni viziate dalla stessa genesi del torto ricevuto.

Penso come la più difficile domanda alla quale rispondere sia quella che richiede risposte solide per rintuzzare il presunto diritto da essi avanzato in nome di quel “lo avete fatto voi fino ad ora, perché dovreste impedirlo a noi?”.

L’unica plausibile è quella invocata e gridata da Francesco nella sua visita a Kinshasa lo scorso gennaio: “Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall’Africa! Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare. L’Africa sia protagonista del suo destino! Il mondo faccia memoria dei disastri compiuti lungo i secoli a danno delle popolazioni locali e non dimentichi questo Paese e questo Continente. L’Africa, sorriso e speranza del mondo, conti di più: se ne parli maggiormente, abbia più peso e rappresentanza tra le Nazioni!”.

Ancor più convinti della nostra ineluttabile interdipendenza con il continente africano, con i suoi popoli, le sue comunità e le persone che in quella terra vorrebbero vivere anche quando costretti ad emigrare dai nostri egoismi, dalle nostre indifferenze e da un’insopportabile, faziosa superficialità nel diffondere e nel ricercare l’informazione.

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