Ecuador – 20 agosto: una scadenza che ci riguarda

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Il prossimo 20 agosto gli Equadoregni saranno chiamati alle urne per le “elezioni generali”. Queste elezioni anticipate sono state indette dopo che il Presidente Guillermo Lasso ha deciso di scogliere il Parlamento, giocando di anticipo rispetto alla possibilità che questi lo potesse mettere sotto “impeachement” per appropriazioni indebita di fondi pubblici (peculato). Tra i personaggi in corsa, candidandosi alla guida delle formazioni di sinistra, riappare Rafael Correa, già Presidente della Repubblica negli anni 2007-2017.

La notizia, a primo acchito, sembrerebbe una di quelle che impatta unicamente sull’interesse, in verità poco diffuso, di allargare lo sguardo oltre le polemiche e le vicende di casa nostra. Al massimo, solleticare le pressioni esterne, queste sì sempre esercitate, di chi convolto in affari con l’Ecuador che produce 500mila Barili al giorno di petrolio, per un valore stimabile in 13 miliardi di dollari americani.

Gli interessi nazionali derivanti dalle attività di ENI, che in questo Paese sfrutta pozzi petroliferi al quanto fruttiferi, non bastano a giustificare un nostro interesse alle sorti future del Paese latinoamericano. Ciò che molto più avrà conseguenze su Italia e sul mondo industrializzato attiene al Referendum che si terrà in concomitanza con le elezioni generali e, appunto, la candidatura di Correa.

Per comprendere la questione occorre comprendere il contesto elettorale e fare un passo indietro nel tempo.

Il Referendum, voluto strenuamente da alcune popolazioni native ecuadoregne supportate da Organizzazioni di società civile locali e internazionali, dopo 10 anni di lotta, nel maggio scorso, è stato autorizzato dalla Corte Costituzionale. La consultazione vedrà gli ecuadoregni esprimersi sulla continuazione delle attività estrattive nell’area del Parco Yasuni – blocco 43 Isphingo, Tambococha e Tiputini (ITT) – con le quali si ottiene ben il 12% della produzione nazionale di petrolio. Un’eventuale interruzione delle estrazioni, giusto per capirci, comporterebbe una diminuzione di entrate statali stimabile in circa 15 miliardi di Euro nei prossimi 20 anni. Cifra di per sé già significativa, ma che lo è ancor di più per uno Stato in piena crisi economica, sociale e alimentare e, soprattutto, per una popolazione impoverita e affamata da anni di politiche liberiste attuate da governanti piegati agli interessi e ai ricatti esteri, statunitensi in primis. Di contro, come sostengono i promotori, proseguire nelle attività estrattive significherebbe definitivamente distruggere uno dei maggiori siti di biodiversità esistenti al mondo, oltre che la cultura e le vita delle tribù abitanti il Parco. Visto che oggi, ad ogni piè sospinto, ci si imbatte continuamente in paladini di analoghi onnipresenti siti di biodiversità, per comprendere la portata del problema mi rifaccio ai dati del Ministero dell’Ambiente di Quito secondo la quale, nel Parco, vivono 2mila specie di alberi, 610 varietà di uccelli, 204 di mammiferi, 150 di anfibi, 121 di rettili e 100mila varietà identificate di artropodi.

L’ex Capo di Stato Correa, sa che le sue sole speranze di vittoria risiedono in una complicata alleanza con le organizzazioni dei popoli nativi, a partire da quelle “Waorani” che abitano nel Parco oggetto del Referendum che mette in gioco la loro possibilità di continuare a vivere nei luoghi ancestrali. La cosa interessante, e arriviamo a ciò che ci riguarda ancor più da vicino, sta nel fatto che Correa si è già occupato della vicenda Yasuni all’epoca della sua precedente presidenza.

Correva l’anno 2007: primo anno di Presidenza Correa. In occasione della annuale Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, il Presidente ecuadoregno avanzò una proposta rivoluzionaria e stravolgente. L’idea sottoposta per l’occasione a tutti gli Stati membri, venne elaborata e preparata nel corso della sua campagna elettorale nella quale mai fece mistero delle sue intenzioni in merito al petrolio del Parco. La sua praticabilità venne verificata con un tour nelle principali capitali occidentali: illustrando il suo progetto, Correa raccolse non pochi consensi dai Governi europei, soprattutto gli scandinavi, che poi divennero convinti sostenitori della proposta. Il tour non poteva non toccare Roma. Il “peso” della capitale italiana, oltre che risiedere negli interessi economici del nostro Paese per il petrolio di Quito, stava anche nella presenza oltretevere della Santa Sede. Lo status di “osservatore” posseduto dallo Stato Vaticano presso le Nazioni Unite e, molto di più, il ruolo di “moral suasion” spesso giocato dal Nunzio Apostolico presso le Nazioni Unite (diciamo l’Ambasciatore del Papa a New York) nei negoziati e nelle mediazioni più complesse, era ben compreso da Correa. Fu per questo, tra l’altro, che in forza delle mie relazioni con le istituzioni ecclesiastiche il futuro Presidente mi chiese di fare da “promoter” del suo tour italiano. Con l’occasione potei apprezzare la coerenza, la determinazione e l’intelligenza politica del candidato “indigeno, ateo e comunista convinto”, come lui stesso non mancava di rimarcare.   

Forte di ciò, e degli appoggi ottenuti con il tour europeo, l’eletto Presidente Correa si presentò a New York con la proposta choc che provo a riassumere con semplificazione del caso. Essa si basava su due considerazioni preliminari. La prima: il patrimonio della biodiversità, a partire da quello esistente nel Parco Yasuni-ITT, è un bene comune globale – cioè del quale beneficiano e devono poterne beneficiare tutte le popolazioni e tutti gli Stati – e la sua salvaguardia e preservazione è, di conseguenza, dovere e “affare” di tutti. La seconda: l’Ecuador è un Paese povero, impossibilitato ad affrontare le problematiche socio-economiche del suo popolo decrementando le entrate statali, a partire da una delle principali fonti di reddito derivanti dall’esportazione dell’oro nero.

Quindi? Semplice: Correa si impegnò a non estendere le perforazioni a fronte di un contributo finanziario ed economico versato all’Ecuador degli altri Stati membri ONU, a compensazione delle mancate entrate nelle casse dello Stato e, per di più, promettendo pari investimenti del suo Governo da destinare alla conservazione del Parco.

Per la prima volta, un Paese dei Sud del mondo formalizzava la responsabilità collettiva rispetto alla tutela e al perseguimento del bene comune globale, sovvertendo definitivamente la cultura di sfruttamento e di superiorità che dal colonialismo in poi, mai si è estinta nei Governi del Nord ricco.

La proposta rivoluzionaria ebbe, nei mesi a venire, alcune adesioni individuali di Stati lungimiranti e responsabili. Pochi, per la verità. Tuttavia, sebbene naufragata, come dimostra il fatto che ancora oggi i nativi si vedono costretti ad una consultazione referendaria, l’idea di Correa servì da apripista per altre iniziative promosse in seguito da altri Paesi impoveriti e, soprattutto, inserì un cuneo prorompente nel mainstreaming imperante della governance globale.

Solidarietà al popolo Waorani, perché la tutela del proprio territorio e della propria cultura non può valere solo per qualcuno. Speranza in un futuro e impegno per un domani nel quale tutti ci sentiremo corresponsabili di tutti e di tutto questo pianeta che qualche volta graffia e morde, ma che stringe i denti per sopportare i dolori e le ferite continuamente inferte da uno sviluppo egoistico, accaparratore e miope ripetutamente spacciato per “sviluppo umano” e per di più “sostenibile”.

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