Non una di meno: per un 2023 di pace per tutti.

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La celebrazione della 56° giornata mondiale per la Pace non è di intensità diversa dalle precedenti: tutte le guerre, tutti i conflitti, tutte le situazioni di assenza di pace hanno la medesima valenza e, ahimè, la stessa drammaticità. L’ultimo Rapporto sui conflitti in corso nel mondo redatto da CARITAS Italiana, stabilisce che nel 2021 erano 361 i conflitti aperti dei quali ben 21 cosiddette “guerre ad alta intensità” alle quali, oggi, si aggiunge quella innescata con l’invasione dell’Ucraina.

Nonostante questa drammatica realtà, con la guerra russo-ucraina sembra ancora riproporsi quella che i sociologi definiscono come la sindrome del “Nym By” (“not in my back yard” n.d.r.) che sempre più caratterizza la nostra cultura occidentale: purché non succeda vicino a me, “non nel mio giardino”.

L’avevamo già vissuta, agli inizi degli anni ’90, in occasione del primo conflitto nei Balcani e delle conseguenti prime grandi migrazioni di massa sbarcate sul suolo patrio. La mobilitazione degli italiani e le reazioni di “solidarietà” manifestate con quei popoli, in patria e in fuga dalla guerra, furono straordinariamente sollecite ed efficaci. La gara per accogliere quei primi barconi e per aprire nuove succursali delle più svariate organizzazioni umanitarie e di volontariato fu impressionante. Addirittura, si arrivò a contare oltre 130 Istituti di religiose italiane, contro le poche decine del periodo ante-guerra, che si affrettarono ad accorrere in soccorso al popolo albanese aprendo laggiù filiali di solidarietà e, forse ancor più prevalente, di intercettazione di nuove vocazioni che riabitassero gli originari Monasteri e Case madri ormai svuotati dal calo delle vocazioni nazionali.

La stiamo rivivendo con chi è in fuga dalla guerra in Ucraina. Ancora la gara di solidarietà, la mobilitazione civile e istituzionale, lo stanziamento di fortune economiche per aiutare il Paese invaso e per accogliere i suoi profughi ha raggiunto picchi mai visti prima. Peccato che, in contemporanea, blocchiamo chi è in fuga da altre guerre e si presenta ai nostri confini anch’essi rischiando la vita, dopo aver subito violenze di ogni genere, anche loro con minori a carico, ma senza occhi azzurri e capelli possibilmente biondi, e rifiutiamo di attenerci agli impegni assunti con la Comunità internazionale in materia di aiuti ai Paesi impoveriti dei Sud del mondo.

Per non dar adito a fraintendimenti, tengo a precisare che è lungi da me il denigrare quanto fatto e si farà per i popoli martoriati entro i confini europei. Piuttosto, ardisco pronunciarmi in nome della profonda convinzione circa l’irrinunciabilità alla dimensione universale della solidarietà e della condivisione, perché vere solo se presenti nei tratti più profondi dell’animo umano e nei fondamenti di una cultura e di una politica assimilate di pace e di giustizia.

Non vorrei per questo, che quanto stiamo praticando nei confronti dei fratelli ucraini sia ancora figlio di un retaggio eurocentrico e conservazionista che vede nella difesa dei confini ristretti di un territorio e di una cultura, peraltro tutt’altro che omogenea all’interno dell’Europa, la scintilla che innesca la responsabilizzazione verso gli altri. Come se, a dispetto di ogni oggettiva e comprovata analisi, non avessimo collusioni, quando non vere e proprie implicazioni dirette, nell’insorgenza di quei 361 conflitti che seminano morte e propagano miseria in tutto il mondo.

Credo che a queste riflessioni generali, si appropriato aggiungerne qualche altra foriera di grandi interrogativi che emergono dall’indagine statistica condotta nell’ambito del citato Rapporto su un campione di 3.090 studenti italiani in collaborazione con l’istituto Demopolis.

Il 50% degli studenti intervistati dichiarano di essere a conoscenza delle guerre nel mondo, purtroppo senza saper citare la loro ubicazione, e di averlo saputo: il 47.2% dalle televisioni, il 43% dai social ed internet, ma solamente un misero 2.1% dalla scuola e l’1.1% da fonti “alternative” quali associazioni e parrocchie.

Il 57% del campione ritiene che le guerre in atto siano causate dalle diseguaglianze economiche e che, per il 63% degli intervistati, tali diseguaglianze siano superabili con una migliore organizzazione socio-economica globale.

Quest’ultimo dato di fondata speranza, chiama ancor più in causa le nostre responsabilità di gestori del presente e di custodi dell’eredità futura che a loro spetta, ma al contempo, mette alla gogna l’ipocrisia di un’educazione fallace e di sentimenti di carità pelosa che rischiamo di infondere nelle nuove generazioni.

Che il 2023 sia un anno di pace nel quale possiamo godere della beatitudine dei costruttori di pace. Per tutti.

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2 Commenti

  1. Condivido pienamente questo tuo scritto/riflessione
    La pace va ricercata e portata a tutti (con una ridistribuzione equa) delle risorse
    Poche righe, non sono in grado di formulare riflessioni/soluzioni, ma mi ha fatto piacere leggere la tua lettera
    Buona giornata, e sopratutto buon anno alla ricerca di pace a tutti
    Ruggero