Stato sociale, Welfare e Democrazia: la diversità culturale delle politiche

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Parafrasando la celebre frase dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe “Dio è nei dettagli”, lo scrittore Paulo Coehlo annovera tra i suoi aforismi più famosi “il diavolo si nasconde nei dettagli”.

Nulla di più appropriato alle dichiarazioni della Premier Giorgia Meloni rilasciate nel suo intervento dello scorso 28 novembre all’Assemblea Generale di Confindustria Veneto-Est con il quale ha illustrato i capisaldi del suo Governo in materia di Legge di Bilancio dello Stato.

Nel corso del suo collegamento in streaming, la Primo Ministro ha affermato: “Abbiamo fatto degli interventi che incarnano una visione sociale, lo dico a voi perché questo Governo condivide con Confindustria questa visione sociale. E lo dico a voi perché, insieme a queste scelte, la gran parte delle risorse e dei provvedimenti è stata dedicata proprio alle realtà produttive, per ribadire un principio che troppo spesso in passato era stato messo in discussione e su cui invece questo Governo ha le idee ben chiare: non esiste welfare, non c’è Stato sociale se non c’è a monte chi genera ricchezza”.

Con il rispetto dovuto per le “idee ben chiare”, e fatto salvo l’onere della prova dei fatti affidata al prossimo futuro, non si può che evidenziare come il “dettaglio” delle convinzioni dell’Esecutivo in materia di Welfare rifletta senza dubbio la cultura politica di quella “destra” ripetutamente presentatasi al Paese anche con la sua faccia “socio-assistenzialista”. Una faccia, almeno stando ai risultati conseguiti, alquanto redditizia; forse anche grazie alla ritrazione da alcune situazioni della cultura politica di opposta matrice identitaria. L’innegabile consenso elettorale che la “destra sociale” consegue nelle marginalità del Paese, fa riflettere e impone un chiarimento esegetico.

Ribadire, come fatto dalla Meloni, la convinzione che l’esistenza del welfare sia strettamente dipendente dall’efficienza dei soggetti generatori di ricchezza, evidenzia il credo nel paradigma neo-liberista che ha caratterizzato gli ultimi due secoli di storia dell’Occidente. Paradigma pienamente e fallimentarmente incarnato dalla politica della Primo Ministro britannico Margaret Tatcher. La sua politica economica è conosciuta come “trickle down”: la tesi raffigurata con la metafora del vaso che, una volta riempito sino alla tracimazione, potrà irrorare con la sua eccedente sovrabbondanza e per percolazione gli esclusi dalla libera corsa all’accumulo di ricchezza. Oltre al giudizio della storia che ne sancisce la totale inefficacia, essa evidenzia una divaricazione incolmabile tra opposte concezioni rispetto alle politiche di welfare , ovvero di come risolvere il problema delle povertà, delle esclusioni e delle emarginazioni. Anche in virtù del fatto che tale teoria economica, a dire il vero in buona compagnia di altre, non distingue tra la generazione di ricchezza derivata da una crescita dell’economia reale che genera lavoro e occupazione, da quella ottenuta con l’economia virtuale delle speculazioni finanziarie prive di qualsiasi controllo, che produce incommensurabili profitti per un esclusivo club di oligarchi che determinano i destini globali, Italia “della Meloni” compresa.

In un sistema economico liberista, al quale si rifà l’attuale Premier promettendo incentivi e libertà di movimento agli industriali, l’economista Noam Chomsky sostiene, nel suo libro “Così va il mondo”, che lo Stato sociale o che dir si voglia il welfare, altro non è che un modo di “lasciare il potere ai ricchi … vincolandoli ad una specie di contratto sociale”. 

In una democrazia perfetta, come teorizzata da Aristotele, la crescita della ricchezza non può convivere con la disuguaglianza e, di conseguenza, in democrazia la necessità di uno Stato sociale dovrebbe tendere all’insussistenza ed alla inutilità. Peccato che, dopo i 2 secoli di democrazie economicamente improntate al liberismo economico, il divario tra ricchezza e povertà sia in costante aumento e stia raggiungendo quei livelli di insopportabilità storicamente alla base di disordini sociali di varia natura.

Il ruolo che le realtà produttive giocano per lo sviluppo di un Paese è fuori discussione. Il nesso tra livelli produttivi e occupazionali è evidenza inconfutabile. Di conseguenza, la preoccupazione di qualsivoglia governo, e di tutti i cittadini, per lo stato di salute delle parti datoriali non solo è doverosa, ma indispensabile per il bene e il futuro del Paese.

Tuttavia, questa giusta preoccupazione dovrebbe discendere da quella prioritaria di garantire equità distributiva della ricchezza prodotta e di piena inclusione di ogni cittadino nella fruizione equa dei vantaggi da essa generati. Non per benevolenza o filantropia; non per “gentile concessione” dei più fortunati; nemmeno dei più “bravi”. Piuttosto, come applicazione del principio di giustizia economico-sociale assunto come priorità dello sviluppo e della crescita della comunità ad ogni suo livello.

Insomma, il fossato che separa la cultura liberal-assistenzialista da quella democratico-partecipativa richiederebbe posizionamenti netti e distintivi della politica e, a cascata, della politica economica. 

Il welfare, che si traduce in italiano con “benessere”, è la finalità dell’agire ed il campo di azione della maggioranza dei soggetti di Terzo Settore, co-protagonisti dello Stato sociale. Essi operano, o meglio dire dovrebbero operare, rifuggendo il ruolo di “barellieri della storia” che, molto spesso, viene cucito su di loro a giustificazione, o a rimedio, delle distorsioni provocate da politiche di sviluppo discriminatorie. Al contrario, perseguire il “benessere” di una comunità, locale o nazionale che sia, impone strategie ed azioni tese a modificare, per quanto più possibile, le strutture, le regole e i meccanismi che innescano esclusione, marginalità e povertà.

In questa prospettiva lo Stato sociale, sempre che lo si voglia concepire in regime di democrazia, tende ad assumere una valenza subordinata alla priorità di perseguire una equità economica tra i cittadini che, per tornare ad Aristotele, può essere raggiunta a condizione che “si distribuiscano beni o vantaggi in modo eguale tra persone eguali e in modo diseguale tra persone diseguali”.

Democrazia e disuguaglianza non possono coesistere. L’allargamento del divario economico, sociale e culturale comporta inevitabilmente una diminuzione della democraticità di uno Stato. Come stigmatizzato da Louis Brandeis, primo giudice ebreo nominato alla Corte Suprema USA nel 1916 “possiamo avere la democrazia oppure possiamo avere la ricchezza concentrata in poche mani. Ma non possiamo avere queste due cose assieme”.

Principio ben compreso anche da parte di Franklin Delano Roosevelt, il Presidente degli Stati Uniti d’America che per fronteggiare la tremenda crisi economica degli anni ’30 promosse il famoso piano di riforma economica conosciuto con il nome di New Deal.  In un suo intervento al Congresso USA ebbe a dire che “non può darsi eguaglianza politica senza eguaglianza economica”.

Fortunatamente la portata della crisi in cui versa oggigiorno il nostro Paese, pur denotando indicatori inquietanti, non è ancora ai livelli del baratro della “grande depressione” del secolo scorso. Meglio sarebbe sfruttare il tempo rimasto per mettere in campo politiche e misure preventive che ricongiungano la crescita economica con il ribilanciamento delle opportunità e dei dividendi da essa offerti a tutti gli italiani. Nessuno escluso.   

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