L’Ucraina chiede all’ONU di togliere il “potere di veto” alla Russia.

 / 

La richiesta del Presidente Zelensky, avanzata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di impedire alla Russia l’esercizio del potere di veto è comprensibile, ma tardiva, strumentale, parziale e inefficace.

Da decenni, le Organizzazioni di Società Civile, insieme ad un cospicuo numero di autorevoli politologhi ed esperti di diritto internazionale, chiedono e si battono per una riforma delle Nazioni Unite che prevede, tra i punti qualificanti, l’abrogazione dell’art 27 dello Statuto ONU che, sin dalla sua adozione il 26 giugno 1945, concede il diritto di “veto” ai 5 Membri permanenti del proprio Consiglio di Sicurezza (Cina, Gran Bretagna, Francia, Russia, USA).

Tale diritto, importante ribadirlo, fu la più avanzata mediazione raggiunta tra le prepotenti ambizioni egemoniche dei vincitori del secondo conflitto mondiale e l’impellente necessità, da tutti condivisa, di dotarsi di una governance globale capace di prevenire e impedire la ripetizione in futuro di simili tragedie. L’evidente fallimento e l’abdicazione de facto delle strutture e dei meccanismi adibiti a tale compito è sotto gli occhi di tutti. Meno visibili, tranne quando i problemi toccano i vicinati dei poteri mediatici, come nel caso ucraino, le cause strutturali paralizzanti la costruzione di sistemi di governance sovranazionale così indispensabili in un’epoca globalizzata caratterizzata da problematiche irrisolvibili da singoli poteri statali (e le migrazioni non sono che uno dei molteplici casi di evidenza, sempre che non si costringa l’orizzonte cognitivo dentro il limite del provincialismo).

Il mantenimento del privilegio di “veto” a distanza di quasi 80 anni, è una delle pochissime norme, insieme a qualche Regio Decreto ancora in vigore in Italia, a non essere stata sottoposta alla valutazione del tempo, della cultura, delle necessità e delle conoscenze nel frattempo profondamente modificatisi. Basti pensare ai mutamenti subentrati negli assetti formali e nelle condizioni politico-economiche dei 5 Stati ancora oggi interditori. All’epoca, giusto per fare qualche esempio,  Gran Bretagna e Francia erano due superpotenze coloniali con il controllo diretto sui due terzi del Sud del Mondo; la Cina contava nettamente meno di oggi sullo scenario economico e politico internazionale; gli USA, ai quei tempi “padre-padrone” dello sviluppo globale, al contrario dei decenni successivi, aveva come unico problema il chiudere la faida con l’altro “padronato” internazionale governato da Mosca. In otto decenni, il mondo ha assunto le fattezze di un diverso pianeta. La geopolitica internazionale abbisogna della ristampa aggiornata dei libri di storia; l’economia e, ancor più, la finanza mondiali sono determinate da nuovi protagonisti e nuovi attori; i processi produttivi rispondono a inediti capicordata; nuove potenze come i BRICS rivendicano un riequilibrio della distribuzione del potere; altri Stati, tra questi molti Paesi dei Sud del mondo, avanzano nuovi criteri di rappresentanza, come ad esempio i dati demografici sino ad ora mai soppesati sui piatti della bilancia delle decisioni globali.

Tutte condizioni che oggi, come dimostrano i consolidati ambiti di aggregazione alternativi alle vecchie e logorate alleanze internazionali, non sono più date. Compreso il “piccolo dettaglio”, alquanto pertinente alla sopra citata richiesta di Kiev, che la “Russia” nel 1945 rispondeva al nome di “Unione Sovietica”: due assetti istituzionali, due condizioni di influenza geo-politica; due pesi economici, due realtà così dissimili che rendono superflua ogni ulteriore considerazione. Piuttosto, suscitano la domanda del perché, con quali meccanismi, in nome di quale prelazione e con quali principi quel potere di unilateralmente bloccare decisioni, processi e soluzioni collettive sia passato nelle mani della moderna Russia. Un dato di fatto che porterebbe quanto meno a comprendere Zelensky nel suo avocarsi ad un pronunciamento e a un posizionamento fattivo della Consiglio di Sicurezza ONU. Tuttavia, Il ricorso al condizionale è d’obbligo quando la giustizia nei suoi principi, i diritti nelle loro articolazioni, i valori nelle rispettive declinazioni vengono impugnati “à la carte” ed evocati all’occorrenza.

Se condividiamo la necessità di una governance globale innanzitutto finalizzata al mantenimento della pace ed efficacemente orientata dalla giustizia e dal diritto, il potere di veto va abolito per tutti. In tale prospettiva, non è più ammissibile  chiedere conto dell’efficacia ad una Comunità internazionale che continua ad essere gestita con strutture e meccanismi subalterni a quelli messi in campo per la difesa degli interessi dei singoli Stati. La permanenza del veto nell’attuale governance globale è norma meno evoluta di quelle della Roma del primo secolo Avanti Cristo, quando l’imperatore Silla tolse tale potere agli intoccabili Tribuni; più arretrata del diritto ecclesiastico della “conservatrice” Chiesa cattolica che, all’inizio ‘900, privò i “grandi Paesi cattolici” europei di tale diritto goduto dal XVI secolo nelle elezioni al soglio pontificio; meno garantista delle costituzioni di Paesi come l’Italia, che ancora oggi riconoscono tale potere al Presidente della Repubblica, ma unicamente riferito alla verifica di compatibilità delle proposte di legge con i principi e gli enunciati costituzionali.

In considerazione di ciò, per certi versi non stupisce come il meccanismo decisionale adottato per alcune materie dalla più recente Unione Europea, sia improntato a principi di medesima risultanza.  Per una serie di questioni ritenute “sensibili dagli Stati membri“, come la politica estera e di sicurezza o alcune legislazioni economiche, le decisioni devono essere obbligatoriamente assunte “all’unanimità”. Traduzione: basta che un solo Stato membro si opponga o addirittura solamente si astenga nelle votazioni per una determinata decisione perché questa sia bloccata, quindi, un potere di veto al pari di quello, se non altro più trasparente, in vigore a Palazzo di Vetro. Un esempio: da mesi l’approvazione del MES e il volere di 26 Stati sono tenuti in ostaggio dalla mancata adesione del ventisettesimo, nella fattispecie il Governo italiano.

La metafora della “terra dei cachi” assume sempre di più valenza planetaria. Il popolarissimo refrain “Italia si, Italia no” si traduce oggi in “Nazioni Unite si, Nazioni Unite no; Europa si, Europa no”. Iraq, Palestina, Iran, Siria e oggi Ucraina, sono le evidenze più notorie della sua attualità. Le controffensive militari non producono i risultati attesi? Dopo aver invocato NATO, USA e compagnia cantante si torna a tuonare alle Nazioni Unite. Gli sbarchi di stranieri assumono numeri ingestibili? Si aborrisce la parziale cessione di potere all’Unione, ci si vanta dell’amicizia dei più acerrimi oppositori di soluzioni condivise, ma si gridano al popolo le responsabilità inadempienti di Bruxelles. L’agricoltura non rende più? Si sforano le quote latte, senza nemmeno pagare le contravvenzioni notificate, mentre contemporaneamente si campa sui sussidi agricoli comunitari che si pretendono ulteriormente aumentati. I nostri mercati sono sotto pressione per la concorrenza delle economie emergenti? Mentre si rivendica l’autonomia nazionale si pretendono, alla faccia del libero mercato e libera concorrenza tanto predicati, interventi drasticamente protezionistici delle produzioni nazionali innescando infinte contese commerciali dagli esiti incerti dei quali, naturalmente, chiedere conto alle sedi sovranazionali di turno.

L’internazionalismo intermittente, figlio di anacronistici nazionalismi ribollenti, è la maschera sotto la quale si prova a mimetizzare l’incredibile retorica di slogan privi di concretezza; di obnubilanti false soluzioni; di rattoppi pudicamente temporanei alle esposte vergogne; di illusorie promesse che radicano nella smemoratezza di navigatori di piccolo cabotaggio attratti dalle sirene dello scoglio più vicino.

Iscriviti alla newsletter

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *