Propedeutica alle Comunità Energetiche

 /  / 

In questi ultimi mesi si fa un gran parlare di Comunità Energetiche (CE). Gli stanziamenti e le facilitazioni, sia a livello nazionale che regionale, sono ingenti e crescenti. La ratio di questa spinta propulsiva verso una transizione energetica e in vista di una maggior indipendenza di fonti energetiche è indubbiamente positiva.

Anche a livello locale, almeno stando al territorio del canturino e limitrofi in cui vivo, si moltiplicano le iniziative, i confronti e gli stimoli per favorire la creazione di questo nuovo modo di produrre energia. Ancora questa settimana, su iniziativa di una raccolta firme promossa dalla sezione canturina del PD, il Comune di Cantù ha indetto un’Assemblea pubblica a seguito della quale il Consiglio comunale è tenuto a discutere della materia.

Tuttavia, resto del parere che un approccio partecipativo, come quello richiesto dalle CE, e comportamenti di responsabilità diffusa, o se si vuole di amministrazione condivisa dei territori, rimangano condizioni propedeutiche affinché le potenzialità di iniziative come quella delle CE, e non solo, assumano dimensioni significative, affrancandosi dalle esemplarità di nicchia di qualche cittadino sensibile e lungimirante. Al contrario, credere possibile calare “dall’alto” la partecipazione della cittadinanza, in passato ha già ampiamente dimostrato la sua inefficacia e, a volte, i suoi effetti controproducenti.

Il punto critico delle CE, come giustamente sottolineato dai tecnici e dagli esperti in materia, è che la transizione verso la produzione energetica a livello locale – di condominio, di quartiere, di città, ecc. – non comporta una significativa riduzione dei costi né, tantomeno, un immediato risparmio in bolletta. La finalità primaria delle CE, infatti, sta nell’autonomia di approvvigionamento e nell’indiscutibile vantaggio ambientale che esse comportano. La mancanza di vantaggio/risparmio/guadagno soggettivo e di breve termine, credo resti uno degli ostacoli maggiori da considerare, come dimostrato per la risoluzione di altre problematiche di pari, se non superiore, impatto collettivo.

Proviamo a pensare alla questione dei cambiamenti climatici e della tutela dell’ambiente. Decenni di sensibilizzazione, di mobilitazioni, di contestazioni, di denunce e di proposte producono ancora oggi risultati scarsi e comunque non rapportabili alla portata delle conseguenze catastrofiche dell’inazione e alla necessità impellente, e non più rinviabile, di misure correttive drastiche del comportamento umano. Nemmeno la ormai martellante insistenza dell’informazione sugli scenari futuri prevedibili, tralasciando qui il discutere dell’incoerenza madornale dei veicoli e dei mezzi di informazione, ha prodotto quella velocità di cambiamento indispensabile al raggiungimento dello scopo: la salvaguardia di un ambiente vivibile in futuro. Fondamentalmente, in quanto si dovrebbero sostenerne costi e “sacrifici” in funzione di benefici in buona parte goduti dalle generazioni future.

Decenni di cultura della “delega”, per la quale la risoluzione dei problemi spetta sempre ad altri e in base alla quale tutto è ammesso sino alla soglia invalicabile degli interessi soggettivi, hanno indotto una disabitudine al farsi carico dei problemi comunitari in prima persona e, se necessario, con il proprio portafogli.

Introdurre un concetto di gestione comunitaria delle problematiche dei nostri territori, nella fattispecie della produzione di energia, a mio avviso richiede pari investimento e uguale impegno nella ricerca di soluzioni tecniche e tecnologiche, quanto nei percorsi di sensibilizzazione ed educazione dei potenziali attori (quelli che oggi vengono fighettamente chiamati stakeholders o con linguaggio efficientista “portatori di interesse”).

Dati gli ottimi risultati conseguiti sul piano tecnologico, grazie ai quali il funzionamento e le potenzialità delle CE sono fuori discussione, si impone la ricerca di pari efficacia per quanto attiene il piano della “Comunità”. Sempre che si intenda rifuggire l’ennesimo utilizzo di linguaggi à la page senza reale assunzione di impegno, di responsabilità e di condivisione.

Il lavoro che svolgo non di rado mi porta, credo in compagnia di molti, a trovarmi nel bel mezzo di contese vicinali, di liti condominiali, di dispute tra confinanti, di assoluta mancanza di rispetto delle minime regole del vivere civile, di arraffamento egoistico dei profitti, di concupiscente accondiscendenza per il “tutto e subito”, del disinteresse della collettività, dei beni comuni e degli altrui destini. Insediare le Comunità in siffatti contesti potrebbe tramutarsi in un’impresa vana se non preceduta da opportuni percorsi e processi di consapevolizzazione, di sostegno e di accompagnamento alla cittadinanza attiva diffusa.

Scegliere di intraprendere percorsi di comunità, ovvero di condivisione e partecipazione, non può essere relegato ad alcune limitate politiche, ma richiede una coerenza politica e delle politiche nella governance complessiva dei territori.

In definitiva, ritengo che la sfida in ballo sia lo smentire nei fatti quanto oltre due secoli orsono sosteneva il pensatore inglese Samuel Johnson: “Ci sarà sempre una parte e sempre una parte molto grande di ogni comunità che non ha cura se non di sé stessa e la cui cura per sé stessa va un poco oltre l’impazienza per un dolore immediato e per l’impeto verso il bene più vicino”.

Ciò richiede tempo, risorse, pazienza, perseveranza e, soprattutto, grande coerenza e manifesta testimonianza, perché convinto con il grande sociologo Zygmunt Bauman (Voglia di comunità, 2008) che “L’assenza di comunità significa assenza di sicurezza; la presenza di una comunità, quando si verifica, finisce ben presto con il significare perdita di libertà”.
 

Iscriviti alla newsletter

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *