Chi specula sulla fame?

Mentre nella sede della FAO, a Roma, si commenta la rielezione del Direttore Generale dell’Organizzazione -che ha confermato, in mezzo a tante accuse di favoritismo per la Cina, il cinese Qu Doungyu per un secondo mandato – nel mondo 1 persona su dieci (9.8%) combatte la lotta quotidiana per procurarsi il cibo per il giorno successivo.

La rinuncia dell’Amministrazione Biden di avanzare una candidatura alternativa a quella cinese, da molti viene letta come strumento di ammiccamento al colosso asiatico e di potenziale acquisizione di credito negoziale per altre questioni e problematiche posizionate sullo scacchiere internazionale. Altri, meno propensi alle dietrologie, ne danno una più semplice interpretazione di merito tecnico-professionale. Ciò che a noi interessa, piuttosto, è riflettere su quel dato scandaloso della fame nel mondo che ancora oggi precarizza, quando direttamente non impedisce, una vita dignitosa a oltre 1 miliardo di persone. Perché questa è la finalità della FAO: combattere e sconfiggere la fame nel mondo.

Questione di carenza di cibo? Assolutamente no. Contrariamente a quanto strumentalmente sostengono alcuni prezzolati esperti, con la finalità di incrementare la produttività dei terreni agricoli a suon di vendita di prodotti chimici e sementi OGM, la produzione di derrate alimentari mondiale raggiunge quantità sufficienti a soddisfare il bisogno alimentare di 9 miliardi di persone. Al contrario e per certo, tra le cause di questo paradosso individuiamo la distorta ed ingiusta distribuzione delle derrate alimentari a livello planetario e della disponibilità di risorse economiche sufficienti per accedere (acquistare) ad un cibo sufficiente e di qualità. Quella parte di umanità che combatte contro la fame sta separata dall’altra che si inventa di tutto per sconfiggere ipernutrizione e obesità.

Altrettanto, ma forse meno risaputo, sulla disponibilità di cibo influiscono pesantemente le speculazioni operate da grandi poteri finanziari che nulla hanno a che vedere con la filiera produttiva alimentare. Queste ingerenze speculative sulle derrate alimentari, trova una sua esponenziale dilatazione dopo la crisi dei subprime del 2008. Impossibilitati ad incrementare i loro enormi guadagni con il mercato immobiliare crollato in un baratro senza precedenti, gli speculatori hanno dirottato le attenzioni, morbosamente lucrative, sul mercato agroalimentare.

Il meccanismo utilizzato? Semplificando un po’, potremmo ricondurlo a quegli strumenti della finanza globale chiamati “derivati”. Essenzialmente nati come strumenti di copertura dai rischi, dando la possibilità di acquistare o vendere un prodotto (detto “sottostante”) in una data futura e a un prezzo deciso al momento della sottoscrizione del contratto, si sono presto trasformati in veri e potentissimi strumenti di speculazione e di profitto. Volendo mettersi al riparo dalle fluttuazioni del mercato, un produttore fissa il prezzo di vendita della sua produzione mediante la stipula di un contratto normalmente con un istituto di credito, che assume il rischio conseguente alle potenziali variazioni di prezzo al momento della vendita.

Peccato che, molto rapidamente, a questi contratti regolamentati e controllati, si sono affiancati quelli “fatti su misura”, nei quali le due controparti si accordano liberamente rispetto alle clausole contrattuali. Stiamo parlando dei famigerati derivati OTC – Over the Counter che, fuori da ogni controllo e regolamentazione, costituiscono oggi il 95% di quelli in circolazione.

Dove sta il problema? Se una delle due parti contraenti è al tempo stesso quella in grado, data la sua potenza economico-finanziaria, di condizionare il mercato di una determinata materia prima, ivi compresi gli alimenti, facile immaginare come il prezzo di mercato di un determinato prodotto al momento della vendita possa favorire, per usare un eufemismo, gli interessi economici della stessa.

Provo a spiegarmi meglio con un esempio.

Supponiamo di voler scommettere sul prezzo futuro del grano. Ne compro un certo numero di tonnellate per 5.000 Euro, le metto in granaio, spero e attendo che il prezzo salga e lo rivendo. Questa è una “normale speculazione” che avviene in economia reale, cioè realmente influenzata da quel rapporto quantità disponibili/prezzo, o di domanda/offerta, che caratterizza le transazioni economiche in un mercato “sano”.

Perchè allora dovrei ricorrere ai derivati? Al di là del lavoro da eseguire per acquistare e stoccare il grano, occorre anche materialmente avere i 5.000 Euro per acquistarlo. Se compro derivati, invece, non devo avere questa somma, ma unicamente l’ammontare necessario per comprare il derivato stesso. Supponiamo ora che la controparte, tipicamente una banca, mi venda a 100 Euro il derivato che mi consente di comprare tra un mese le medesime tonnellate di grano al prezzo di 5.000 Euro. Se tra un mese il grano vale 5.500, posso comprarlo e rivenderlo immediatamente e realizzare cosi un guadagno di 500 Euro che, dedotti dei 100 Euro che ho pagato alla banca, ho realizzato con soli 100 Euro di capitale un profitto di 400 Euro, pari cioè al 400% del capitale investito. Non avessi comperato il derivato ed avessi agito direttamente sul mercato reale, alla vendita del grano acquistato avrei un identico guadagno di 500 Euro, ma a fronte di un investimento di 5.000 Euro, ovvero con un profitto pari al solo 10% del ben più elevato capitale utilizzato, essendomi accollato i rischi connessi e avendo utilizzato tempo, fatica, strutture e via dicendo.  

Dato che questa “opportunità” dei derivati viene sfruttata per moltissime materie prime, non solo per il cibo e i prodotti agroalimentari, facile capire che simili disparità di guadagno fanno alquanto gola a chiunque, ma soprattutto a chi in grado di investire cifre ben superiori ai 5.000 Euro del nostro esempio e in virtù di ciò di determinare, o quanto meno influenzare, le oscillazioni delle quotazioni in borsa attraverso l’acquisto/vendita di ingenti quantità dei derivati di un determinato prodotto.

Guarda caso, tutte le statistiche economiche indicano che alle variazioni di prezzo delle principali derrate alimentari consumate nel mondo – riso, mais e grano – non corrispondono linearmente variazioni delle produzioni. E, guarda caso, oggigiorno i capitali investiti in derivati ammontano a cifre paragonabili a 12 volte l’intero PIL mondiale. Ancora, come se non bastasse, tuttora il guadagno (il Valore Aggiunto) delle compravendite degli alimenti ricade solo per meno del 15% nelle tasche dei produttori agricoli, mentre i grandi finanzieri, i proprietari dei marchi della Grande Distribuzione, le multinazionali della trasformazione accumulano miliardi sulle loro spalle e sulla pelle della povera gente affamata.

Da anni, e sicuramente dopo l’apice della crisi alimentare registrata in quel disastroso 2008, molte Organizzazioni di Società Civile, ivi comprese quelle riunite nei successivi Forum organizzati in occasione, tra l’altro, dei Vertici FAO – per oltre dieci anni presieduti dal sottoscritto – chiedono una regolamentazione internazionale che espella dai mercati alimentari gli speculatori finanziari, ovvero che i prezzi sui mercati mondiali del cibo siano fissati sulla base all’andamento reale delle produzioni.

Il cibo non è una merce! Questo lo slogan da anni gridato dai poveri del mondo. Questo uno dei principi cardine del Comitato Italiano per la Sovranità Alimentare, che ho l’onore di presiedere, al quale aderiscono oltre 270 associazioni di categoria (come CIA, AIAB e COLDIRETTI), ONG, associazioni ambientaliste (quali LEGAMBIENTE o WWF), sindacati e tanti altri, . Il cibo in quantità e qualità adeguate è un diritto fondamentale di ogni persona e, come tale, deve essere tutelato, garantito e inviolato per ogni individuo, a partire da coloro che ancora oggi si vedono negato questo fondamento della dignità di ogni vita umana.

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