Consumo di carne: chi guadagna e chi paga

L’esponenziale crescita demografica che ha contrassegnato gli ultimi decenni, pone, tra i vari problemi di sostenibilità, anche quello del consumo di carne e la conseguente necessità di intensificarne la produzione. Dal 1992 al 2016, infatti, l’aumento del consumo mondiale di carne è cresciuto del 500%.

Di questo problematica se ne sta occupando, tra gli altri, la “Farm Animal Investmentr Risk and Return” (FAIRR Initiative). Iniziativa  poco conosciuta dai più, ma oltre 4 mila miliardi di assets gestiti in grado di influenzare e orientare le scelte dei grandi investitori di mezzo mondo e, di conseguenza, anche quelle dei consumi di massa.

Con il suo rapporto “The Livestock Levy, la FAIRR ha recentemente evidenziato come l’incremento produttivo messo in atto per rispondere alla esorbitante domanda in carne a livello globale, si ripercuota  con pesanti conseguenze sull’inquinamento ambientale. Questo, soprattutto,  per le quantità di anidride carbonica prodotta dalle deiezioni animali, per l’utilizzo massiccio di sostanze e prodotti chimici, per la crescente dissociazione tra allevamenti e terra con il conseguente degrado dei suoli l’enorme problema dello smaltimento dei reflui. Per di più, come risaputo, una dieta alimentare con importanti percentuali di proteine animali, è tra le maggiori cause dell’obesità dilagante, della diffusione di tumori e di altre malattie alimentari che vanno a pesare sui costi della sanità pubblica.

Come prevedibile, l’allarme lanciato con il citato Rapporto, ha già prodotto i suoi primi effetti: con in testa Danimarca, Svezia e Germania, diversi Paesi stanno valutando la possibilità di introdurre una tassa sul consumo di carne. Come già per altri prodotti ritenuti “nocivi”, alla salute umana o all’ambiente, anche per la carne ci si avvia verso un’ipotesi concreta di contribuire alla limitazione del suo consumo attraverso la leva dell’aumento del suo costo al consumo.

Il suggerimento di FAIRR per aggredire questa problematica, e per salvaguardare i profitti degli investitori aderenti, è quello di puntare sulla produzione di alimenti alternativi alle proteine animali. Una prospettiva del tutto condivisibile, tranne che per la tempistica di concretizzazione.

Infatti, in attesa dell’auspicato mutamento delle abitudini alimentari di miliardi di persone, gli stessi investitori potranno ancora beneficiare, e per parecchio tempo, degli introiti del mercato della carne da essi controllato, senza sostenere alcuna spesa di adeguamento dei loro metodi produttivi ad una maggior sostenibilità e al rispetto dei diritti dei consumatori e dell’ambiente, ma piuttosto, come consuetudine, facendo ricadere i costi dei danni provocati sui consumatori finali.

Il malcostume di aggredire gli effetti, e non le cause, dei mali di questo nostro tempo non cessa di imperare nelle scelte strategiche dei decisori, sempre più in balia dei potentati economici mossi da una irrefrenabile sete di guadagno.

(Articolo pubblicato su Repubblica.it)

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