Uguaglianza e giustizia sociale

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Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi ripropone una vessata questio che da qualche tempo occupa i dibattiti politici: ha ancora senso una distinzione tra destra e sinistra?   O meglio: ha ancora senso parlare di differenze tra culture di riferimento per gli attuali schieramenti politici?

Ben prima dell’avvento di Trump e dell’evidenza provata – un esempio su tutti può essere le sue scelte in materia di lotta ai cambiamenti climatici – di cosa possa significare passare da un democratico alla Obama ad un populista conservatore come il biondo Tycoon, ho sempre ritenuto che la negazione di una diversità, a tratti una divaricazione, tra riferimenti ideologici, tutt’altra cosa che le ideologie, delle esperienze politiche e di governance altro no sia che l’affermazione di un pragmatismo orientato alla conquista di qualche voto in più. Spesso, come insegna la storia recente, perseguito facendo leva su un mix di populismo e semplicismo che tanto attrae i residui di fiducia di buona parte di una società colpevolmente relegata nella difesa di interessi particolari e personali.

Nel nostro Paese, il problema si ripropone con alcune delle più recenti  manifestazioni di intenti proclamate dal Cavaliere, come nel caso dell’intervista rilasciata a LA7 la scorsa settimana, e con alcune decisioni assunte dal Governo  a maggioranza PD attualmente in carica.

Il primo per aver rilanciato, rivendicandone peraltro la paternità, la promessa di una Flat Tax nel caso di sua nuova nomina a primo ministro; il secondo con la decisione assunta di sostenere l’iscrizione alle scuole materne fondata unicamente sul principio di “chi primo arriva meglio alloggia”. Una sorta di Flat Subsidy da erogare indipendentemente da qualunque considerazione circa lo stato socio-economico delle famiglie potenzialmente beneficiarie. In entrambi i casi, paradossalmente, la strumentale confusione tra eguaglianza e giustizia sociale portano a valutare proposte e scelte di questo tipo come mezzucci propagandistici per accaparrarsi i favori di cittadini sempre più sollecitabili solo sul piano dei piccoli  o grandi vantaggi economici che potranno ottenere orientando il proprio voto o la propria propensione politica verso l’uno o l’altro schieramento. Poco importa se il prezzo da pagare sia una grave  deresponsabilizzazione verso ogni altra considerazione circa la necessità, anche in vista di “far ripartire” la nostra economia, di puntare su una giustizia redistributiva, sia nel caso dei prelievi fiscali, sia in quello dei sostegni pubblici agli investimenti sul futuro degli italiani.

La semplificazione derivante dalla non assunzione di responsabilità da parte dei governanti in teoria chiamati a promuovere il bene comune, cioè quello di tutti i cittadini, non è pratica nuova. Ad esempio basti ricordare la politica dei “tagli lineari” – ancora una sorta di Flat cut – praticata da Tremonti a Padoan passando per Visco e Monti. Nella necessità di reperire risorse si taglia indistintamente e uniformemente su tutte le voci di bilancio pubblico così da “non scontentare nessuno”, ma senza nemmeno scommettere sbilanciandosi su l’uno o l’altro settore. Si riducono le sovvenzioni alle burocrazie, ma anche quelli sulla scuola; si taglia sui finanziamenti alle rappresentanze diplomatiche, ma anche sui fondi per la lotta alla povertà; si abbassano le sovvenzioni alle banche …. No : ciò a dire il vero non è mai accaduto!

L’egualitarismo sociale utopico di passate ideologie non può trovare alternativa in un egualitarismo strumentale delle attuali realpolitik.  Valutare la spesa sociale  come investimento o, al contrario, come fardello sacrificale del profitto propone una differenza sostanziale tra impostazioni politiche e culturali sanamente avversarie di una democrazia compiuta. Considerare la giustizia sociale l’investimento prioritario per una ripresa economica o, piuttosto, una inevitabile regalia da sostenere e una pesante zavorra da trascinare sono modi contrapposti di pensare al futuro. Anche quello della governance di un Paese.

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