Riforma delle cooperazione allo sviluppo

Il Decreto Legge presentato dal Governo Letta approderà tra poco alla discussione parlamentare con il forte rischio che, per l’ennesima volta, ci si concentri su aspetti tecnocratici ed organizzativi mettendo in secondo piano la vera urgenza di questa riforma: modificare il paradigma dello sviluppo cui tendere e al quale la cooperazione dovrebbe apportare un contributo determinante. 

Preoccupa non poco che il dibattito si possa scatenare, acceso dai supporter di una o dell’altra alternativa, sulla collocazione della costituenda Agenzia che dovrà gestire le attività di cooperazione, Milano e Firenze hanno già avanzato le rispettive “candidature” per sottrarla dalle sgrinfie della diplomazia e della burocrazia romana, sottraendo risorse e tempo alla discussione di alcuni nodi che permangono praticamente inalterati nel testo del DdL. La nostra cooperazione resta in uno stato comatoso; le risorse ad essa destinate languiscono ai minimi storici dello 0,13% del PIL (dato riferito al 2012); il grado di trasparenza degli Aiuti italiani viene relegato nelle posizioni più basse delle classifiche internazionali redatte dall’OCSE; la coerenza delle politiche è ben di più di uno strumento come il Comitato interministeriale; l’ingerenza dello stato nelle scelte della cooperazione non governativa aumentano col passare del tempo; l’efficacia degli aiuti intesa come mero raggiungimento di risultati resta l’idolo assoluto che fagocita ogni altro parametro di valutazione, lo spirito e l’apporto del volontariato sembrano essere relegati a retaggio di un passato nostalgico, anacronistico, forse ideologico.

Molte dei documenti e delle dichiarazioni delle Nazioni Unite, a partire dalla Dichiarazione sul Diritto allo Sviluppo adottata nel lontano 1986, indicano chiaramente come un Aiuto efficace per la lotta alla povertà, finalità prima della cooperazione allo sviluppo, deve basarsi sui diritti umani e adottare un approccio orientato alla tutela e alla promozione dei diritti di tutti, in particolare delle persone più vulnerabili ed emarginate; valorizzare le risorse umane, la “prossimità” e la partecipazione dei più poveri nella determinazione delle scelte programmatiche; tendere a ridistribuire equamente il potere ancora concentrato nelle mani di pochi a vantaggio dei ceti sociali più emarginati; agire con coerenza tra le politiche internazionali promosse dal Paese. Su queste basi vorremmo una nuova legge che verifichi per tutti i soggetti di cooperazione la sussistenza dei requisiti necessari ad un’azione coerente del “sistema Italia” e non, come il DdL prevede, ancora riferita solamente per la cooperazione non governativa e alla new entry costituita dalle associazioni di migranti, mentre apre le porte indiscriminatamente agli altri attori, in primis alle imprese profit che, a quanto pare, seguitano ad essere ritenute idonee solo per il fatto di “essere impresa”, esattamente come nella riformanda legge 49/87.

Il decentramento delle cooperazione, intesa come reale esercizio di compartecipazione delle scelte delle politiche e delle strategie, non può continuare ad essere ridotta ad una questione logistica di collocamento delle strutture decisionali.  La governance democratica ha caratteristiche ben precise dalle quali andrebbero fatti discendere fatti concreti e non roboanti enunciati.

Al Parlamento il compito di procedere rapidamente, per finalmente addivenire alla agognata riforma della 49 già invocata vent’anni fa, senza però fare sconti sui contenuti e prendere scorciatoie nelle modalità con le quali si condurrà il processo di riforma. Quanto prevede il DdL in materia di consultazione con le organizzazioni di società civile, formalmente limitata alla Conferenza annuale sulla cooperazione, non fa presagire nulla di buono. Ma a tutti va concesso il beneficio di inventario e la possibilità di smentire prassi che nelle nostre istituzioni si sono da troppo tempo sedimentate.

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