Greenwashing, ovvero come si turlupinano i consumatori

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I dati che mergono dal monitoraggio condotto dalla Commissione europea in materia di violazioni del diritto dell’Unione Europea in materia di tutela dei consumatori nei mercati online, rilevano che nel 42% dei casi le pubblicità dei prodotti europei contengono affermazioni esagerate, false o ingannevoli, in particolare per quanto riguarda la sostenibilità e il rispetto dell’ambiente. A rivelarlo l’interessante studio “Green washing 2025” presentato a Circonomia, il Festival dedicato a economia circolare e transizione ecologica in programma ad Alba dal 22 al 24 maggio 2025.

Per “green washing” – come dettagliatamente definito dalla professoressa Paola Ungaro nel suo “Greenwashing, cos’è esattamente e perché è così pericoloso” (AGI, 2021) dove cita diversi esempi di tale pratica scorretta – si intende il tentativo di nascondere la realtà dietro una facciata ecologica o ambientalista tramite una strategia di comunicazione ingannevolmente positiva per distogliere l’opinione pubblica dal reale impatto negativo dell’azienda.

Come, ad esempio, nel caso ENI.  La promozione del carburante ENI Diesel+, descritto come “a basso impatto ambientale” grazie alla presenza di HVO (Hydrotreated Vegetable Oil). Tuttavia, l’olio HVO utilizzato derivava in gran parte da olio di palma grezzo, una materia prima notoriamente associata a fenomeni di deforestazione. Fatto che, nel 2020, ha portato l’Autorità Garante della Concorrenza e il Mercato (AGCM) ad infliggere alla società petrolifera italiana una sanzione da 5 milioni di Euro, poi annullata dal Consiglio di Stato nell’aprile 2024 in quanto prodotto meno inquinante rispetto ad altri diesel, quindi considerabile “green”!

Oppure, come per Ferrarelle che pubblicizzava le proprie bottiglie di acqua a “impatto zero”, mediante una compensazione delle emissioni di CO2 con opere di riforestazione, mentre tale azione riguardava un solo misero 7% della produzione totale annua. O ancora, per citare un esempio in campo finanziario, per Intesa San Paolo. Mentre pubblicizza di detenere “solo in azioni di società che soddisfano standard ambientali, sociali e di governance minimi, senza esclusioni di settore”, con la sua controllata Eurizon la banca finanzia società attive nel gioco d’azzardo, nell’estrazione mineraria e nell’industria del tabacco come Philip Morris.

Aver citato società italiane, ovviamente, non significa minimamente che le nostre imprese siano peggio di altre di altra nazionalità. Basterebbe rievocare il recente e ben noto scandalo “dieselgate” di Volkswagen e BMW; quello di Nestlé-Germania insignita del premio “avvoltoio d’oro 2024” per la “peggior bugia ambientale”; quello delle bottiglie di plastica di Coca-Cola o degli imballaggi usa e getta di McDonald’s spacciati per “sostenibili”. Semplicemente, spero evidente, vorrebbe indurre una riflessione nei lettori di questa newsletter al fine di suscitare interesse per comportamenti e stili di vita utili a quel cambio di rotta possibile con la forza della responsabilità dei consumatori che, a detta addirittura di molti economisti, ha potenzialità che vanno ben al di là di quanto si possa individualmente immaginare.

Una forza che, altresì, necessita di un quadro politico e di una responsabilità condivisa dai legislatori nazionali e comunitari. Promuovendo legislazioni incentivanti, ancor prima che punitive, i decisori possono definitivamente tutelare ambiente e futuro, in primis, e i consumatori come immediata conseguenza. Ed è proprio in questa direzione che negli anni si è mossa la Unione Europea.

Promotrice di diverse normative che, nel tempo, hanno innescato una vera e propria lotta alle contraffazioni, alle millantazioni, alle truffe e ai raggiri perpetrati da imprese a danno dei consumatori e adottato molteplici misure in favore della necessaria transizione energetica – uno su tutti il bistrattato e controverso “Green Deal” – di recente ha approvato il cosiddetto “Pacchetto Omnibus”. Con essi, la UE intende applicare una serie di semplificazioni in materia di transizione ecologica, in particolare in favore delle piccole e medie imprese (PMI) riconosciute come esageratamente subissate da norme, regolamenti e burocrazie incompatibili con una gestione efficace di impresa.

Condividere questa ultima iniziativa di Bruxelles, tuttavia, non può fugare alcune perplessità circa la sua reale finalità. In un clima di smantellamento e di dilazione delle misure ambientali, come lo stiamo vivendo dalla riconferma per il secondo mandato della Commissione von der Leyen, i dubbi che si stia procedendo con un vero e proprio “stop the clock”, come battezzato dalla maggioranza delle organizzazioni della società civile impegnate per la tutela dell’ambiente, sono più che fondati. Come lo sono i dubbi che portano a pensare che il prezzo pagato a negazionisti, lobbisti, populisti e prezzolati parlamentari per il conseguimento della necessaria maggioranza a Strasburgo sia proprio quello di una maggiore “flessibilità” applicativa delle normative “green”.

Un esempio su tutti riguarda l’obbligo di rendicontazione per le imprese delle performance ambientali, sociali e di governance introdotto nel 2022 (la CSRD – Corporate Sustainability Reporting Directive) e progressivamente esteso dalle grandi aziende alle PMI. Oggi, con le ultime misure citate, circa l’80% delle imprese attive in Europa sono esentate da tale incombenza.

Insomma, il difficile equilibrio tra la sostenibilità – che ricordiamo essere articolata e fondata sui tre pilastri economico, sociale ed ambientale – e la produttività non può consegnarsi unicamente alla responsabilità individuale di chi già sensibile ed impegnato a garantire un futuro vivibile. Esso abbisogna di meccanismi di monitoraggio, di incentivazione, di legiferazione, di saggezza da parte di una politica al servizio dei cittadini tutti e non piegata agli interessi di pochi, tarata su di una visione di medio e lungo periodo e non piegata ai tornaconti dell’immediato.

L’anarchica utopia dell’autoregolamentazione dell’individuo non è di un tempo come questo dove profitto e interessi di parte sovrastano abbondantemente quelli di troppe persone private dei più fondamentali diritti; quelli delle generazioni future che dell’eredità di quelle attuali subiranno il peso e ne sconteranno gli errori e le superficialità.

La doverosa semplificazione di una soffocante burocrazia che imperversa da Roma a Bruxelles, ivi compreso sulla responsabilità incarnata nell’imprenditoria lungimirante, non può tradursi in un assai rischioso “liberi tutti” che ha già pienamente manifestato la sua propensione, sposata da una buona maggioranza, ad anteporre la massimizzazione del profitto a qualsivoglia altra necessità e a qualunque altro diritto individuale e collettivo, presente e futuro.  

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