Povertà in Italia: i numeri non mentono

Le opinioni sono per definizione soggettive. Le interpretazioni già un po’ meno. I numeri l’esatto contrario. Per questo occorre conoscere e partire da questi ultimi e da lì risalire fino a costruirsi un parere quanto più possibile oggettivi.
Lo scorso 26 marzo ISTAT ha aggiornato i dati relativi alle Condizioni di vita e reddito delle famiglie – Anni 2023 – 2024. Come consueto, in questo rapporto numeri e dati sono sovrabbondanti. Provo a riassumerne alcuni significativi ai fini di potersi posizionare rispetto alle dichiarazioni propagandistiche, e conseguenti reazioni polemiche, molte volte utilizzate dagli schieramenti politici di maggioranza e minoranza di turno. Spesso, senza nemmeno avere contezza dei dati, accodandosi ai rispettivi capibastone.
Il dato più sconfortante è che un italiano su cinque, per l’esattezza il 23.1%, è a rischio povertà o esclusione sociale. Per di più, con un incremento rispetto al 2022 quando la percentuale si fermava al 22.8%. Per dirla in termini assoluti, che rendono di solito meglio l’idea dell’urgenza, 13.5 milioni di persone sono a rischio di povertà, in grave deprivazione materiale e sociale oppure a bassa intensità di lavoro.
Sempre un italiano su cinque svolge un lavoro cosiddetto a “basso reddito” e i redditi netti familiari sono in continua riduzione non tenendo il passo del tasso di inflazione. Ovvero, la riduzione media dei redditi in termini reali registra un meno 8.7% rispetto al 2007, con un picco del 13.2 % e dell’11% rispettivamente nel sud e centro Italia.
Un dato di questa portata, potrebbe indurre a pensare ad una sorta di inevitabilità delle cose, ad una generalizzata crisi economica che colpisce globalmente non solo in nostro Paese, così spesso evocata a discolpa e giustificazione. Ora, sempre stando all’imparzialità e alla credibilità dei rilevamenti dell’Istituto di Statistica, la vera questione da considerare è che sul tavolo degli imputati sono le risorse economiche complessive potenzialmente disponibili in Italia. La ricchezza netta totale delle famiglie italiane ammonta a ben 11mila miliardi di Euro. Un tesoretto che, secondo uno studio dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera, potrebbe essere significativamente incrementato di altri 26 miliardi, mediante l’applicazione di un’aliquota di solo l’1% al quintile dei più ricchi italiani.
A tutto ciò si aggiunge, a completamento di questo ragionamento, la crescente disparità di reddito tra i più ricchi e i più poveri. In economia, come noto, tale gap viene registrato con l’Indice di Gini, elaborato proprio per monitorare le disuguaglianze economiche presenti nei Paesi. Questo Indice, nel corso degli ultimi due anni, è anch’esso cresciuto passando dal valore di 0.315 del 2022 allo 0.323 dello scorso 2023. E non tragga in inganno l’apparente insignificanza della discrepanza, in quanto, tradotto in altri termini, ciò sta a dire che il reddito medio percepito dalle famiglie più ricche è 5,5 volte superiore a quelle più povere.
Ecco. Ad ognuno trarre le conseguenze. A ciascuno dotarsi di un qualche criterio per valutare le declamatorie di questo o quell’altro economista o presunto tale. La certezza, almeno per me, è che questa regressione non può essere imputata che a precise scelte di chi delegato a decidere dell’economia del nostro Paese e, per altro verso, che trattasi di una questione prioritaria ai fini della programmazione di un vero e condiviso sviluppo del nostro Paese. sempre che si sia d’accordo con la saggezza di chi in economia sostiene che “lo sviluppo o sarà di tutti o non sarà”.