Una “Camaldoli europea” contro il demone della guerra e dei nazionalismi

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La ganascia della guerra militare di Putin, da un lato, e dall’altro quella della guerra commerciale di Trump stanno schiacciando in una morsa letale ciò che resta dell’Europa sognata dai grandi statisti che nel secondo dopoguerra hanno riunificato un continente alla deriva. La reazione della Presidente della Commissione Europea è quanto di più folle, inattuabile, pericoloso si potesse immaginare.

Come dichiarato da Ursula von der Leyen lo scorso 12 marzo di fronte al Parlamento di Strasburgo, “È finito il tempo delle illusioni, dobbiamo andare oltre il 3% per la Difesa, raggiungere la pace attraverso la forza”. Tradotto in cifre più comprensibili, dei famigerati 800 miliardi da reperire in 4 anni per l’attuazione del piano “Ream Europe solo 150 proverrebbero da prestiti europei mentre i restanti 650 dovrebbero essere versati dai singoli Stati membri. Peraltro, dato quasi mai evidenziato, facendo un enorme favore agli USA di Trump essendo l’Unione Europea il primo importatore al mondo di armi statunitensi.

Per l’Italia, questo “giochetto” si tradurrebbe in un esborso di 88 miliardi di Euro e un incremento del disavanzo pubblico dal 3.4% del 2024 al 5% nel 2028. Ovviamente, in questo caso, percentuale ammessa grazie alla deroga al Patto di Stabilità sancita dalla UE che per le armi, e solo per le armi, ammette lo sforamento del tetto del 3%. Non così, invece, per la spesa sanitaria, per quella sociale, per la transazione energetica, per gli aiuti umanitari che, paradossalmente, potrebbero trasformarsi definitivamente nei bacini economici dai quali attingere quelle risorse oggi inesistenti e inimmaginabili per domani.

Una prospettiva non solo ulteriormente divisiva tra gli schieramenti politici di tutti gli Stati membri, ma anche dei cittadini di questa inedita Europa belligerante pronta a rimangiarsi la sua originaria finalità di peace keeper, rispettata per più di mezzo secolo, dentro come al di fuori dei propri confini. In un momento storico, peraltro, che potrebbe costituire una formidabile ed inedita occasione di accreditamento e di rivalutazione del potere della UE sullo scacchiere internazionale. La repentina quanto esecrabile decisione presa da Trump di tagliare i fondi allocati a USAID (l’agenzia voluta da JFK per la gestione degli aiuti umanitari in favore dei Paesi impoveriti dei Sud del mondo) si traduce in una diminuzione di circa il 40% del totale degli aiuti umanitari a livello globale. Basterebbero molto meno di quegli ipotetici 800 miliardi per ridare un ruolo di primordine e una credibilità mai consolidata a quell’Europa che da geniale promotrice della prima istituzione governativa condivisa tra Nord e Sud del mondo – l’Assemblea Paritetica UE – Paesi ACP – nel tempo si è ridotta ad essere considerata come esecutrice dell’agenda di politica neocolonialista dettata da Washington per contrastare quelle di Mosca e ancor più di Pechino. Un vuoto creatosi inaspettatamente che, la storia ci insegna, tale non rimarrà ancora per molto.

Le divisioni e contrapposizioni suscitate dal “Rearm Europe” sono inaccettabili per chi ripone nel massimo consenso il principale criterio delle proprie scelte. La popolarità, è noto, è conditio del veleggiamento sulle creste elettorali e su di un prosperoso futuro da garantirsi.  Ecco allora che, ancora una volta, la tattica più efficace per sottrarsi alla stretta avversaria è quella di ricompattare i ranghi in nome di un comune nemico, di cause di forza maggiore, di un’emergenza di fronte alla quale machiavellicamente sacrificare principi, valori, diritti, eredità storico-culturale, prospettive lungimiranti, patti siglati e accordi sottoscritti. Tattica ancor più vincente, ai fini di cui sopra accennato, se sull’altare sacrificale l’olocausto è preda facile, animale debole, vittima silente.

Come nel caso dell’oramai morto e sepolto Green Deal. La transizione ecologica fino a ieri considerata dalla Commissione europea – e dalla Presidente von der Leyen in primis – necessaria e improcrastinabile è di continuo amputata dalle voraci zanne delle lobbying negazioniste ed affariste. Pressioni che a dicembre hanno indotto la Commissione ad allentare le regole contro la deforestazione rinviando di un anno l’entrata in vigore del divieto di importazione di prodotti frutto del taglio indiscriminato delle foreste; riducendo l’obiettivo di 200mila a meno di 20mila le imprese europee obbligate a verificare l’impronta carbonica di quanto importato da Paesi extracomunitari per compensare con i certificati di carbonio l’inquinamento del pianeta, la cosiddetta “Carbon border tax”; a continuamente rinviare la messa al bando dei carburanti derivati da fonti fossili e dei finanziamenti alle industrie estrattive, nemmeno vale la pena sprecare commenti.

Ma più efficace ai fini del ricompattamento e del consenso ricercati, risulta ancora una volta tirare in ballo lo spauracchio delle invasioni barbariche suppostamente legate al fenomeno delle migrazioni, conseguenza inevitabile e fisiologica di una globalizzazione sin qui predicata e perseguita anche da chi più tenacemente convinto dell’imminente tragedia.

Con molto meno enfasi mediatica, forse non del tutto casuale, lo scorso 11 marzo la Commissione Europea ha varato una direttiva per omogenizzare le regole di rimpatrio di stranieri irregolari sin qui stabilite e attuate in autonomia dai singoli Stati membri. Sebbene nel corso del 2023 – ultimi dati disponibili in forma elaborata – dei 430.560 decreti di allontanamento emessi ne siano stati eseguiti il 20%, in Italia addirittura solo il 16.8%, e nonostante gli eseguiti siano stati tali praticamente solo per cittadini di Paesi di facile gestione e debole contrattazione (mai sentito di un rimpatrio eseguito verso un Paese come la Cina!!), quella degli Hub di ritorno, del Patto su immigrazione e asilo, delle quote di accoglienza, dei porti e “Paesi sicuri”, delle traversate surreali da e verso l’Albania, la problematica migranti rimane un formidabile cavallo capace di spronare alla battaglia anche le truppe più restie. Come sagacemente sostiene il sociologo Maurizio Ambrosini “Vogliamo escludere o cacciare gli immigrati, ma non possiamo evitare di averne bisogno” (Avvenire di mercoledì 12 marzo 2025)

In simile contesto, sentire le citazioni di Alcide de Gasperi – come quelle strumentalizzate dalla von der Leyen – affianco delle esternazioni di quel “coglione di Vannacci” per il quale “il problema vero non sono l’aggressione e la minaccia russa, ma sono le chiese cristiane che bruciano”, mette i brividi e fa rizzare i capelli.

In simile contesto non posso che lodare, sposare e sostenere la proposta dell’amico cardinale Matteo Zuppi, avanzata in apertura del Consiglio permanente della Cei dello scorso 10 marzo, che sostiene la necessità di una “Camaldoli europea” perché “Oggi il male del nazionalismo veste nuovi panni, soffia in tante regioni, detta politiche, esalta parte dei popoli, indica nemici. Il suo demone non è amore per la patria, ma chiusura miope ed egoistica, che finisce per intossicare chi se ne rende protagonista e le relazioni con gli altri”.

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