La guerra silenziosa combattuta per l’Artico

L’approvvigionamento in risorse naturali, gas, petrolio, è notorio, è tra i moventi principali di molti dei conflitti in essere sul pianeta. Da sempre, gli enormi interessi legati allo sfruttamento delle risorse per sfamare la sete di energia di uno sviluppo incurante dei destini dell’ambiente e delle future generazioni, muovono gli eserciti, armano i cannoni, distruggono territori e, purtroppo, uccidono milioni di civili inermi e innocenti.
Alcuni di questi conflitti occupano quotidianamente le prime pagine dei giornali, le notizie di apertura di TG e le ormai radicalizzare discussioni dei talk show del tutto inutili ai fini della comprensione. Non quello che, silenziosamente e quasi in maniera occulta, è combattuto per il controllo dell’Artico con le armi della prevaricazione politica e l’arroganza delle potenze mondiali. Così come ai più, è del tutto sconosciuta l’esistenza di un organismo, il “Consiglio Artico”, istituito nel 1996 dalla comunità internazionale per regolamentare e stipulare accordi su norme, porre limiti e dettare comportamenti che i singoli Stati avrebbero dovuto adottare nell’utilizzo delle immense risorse celate sotto i ghiacci e sul fondo dei mari della calotta artica. Tuttalpiù, ogni tanto, trapela qualche notizia, spesso alimentata dalle proteste delle organizzazioni ambientaliste, circa le scellerate pratiche della pesca selvaggia che già hanno saccheggiato la biodiversità ittica mettendo a repentaglio la conservazione di molte specie marine.
I membri di questo sconosciuto e importante organismo internazionale sono gli Stati circumpolari: Canada, Danimarca (con le Isole Faroe e la Groenlandia), Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Svezia e Stati Uniti (giusto per onore di cronaca, l’Italia ha ottenuto lo status di “osservatore” nel 2013). I suoi compiti: gestire gli immensi giacimenti di beni comuni e questioni vitali per le popolazioni del Nord, con particolare attenzione all’ambiente, al clima e allo sviluppo sostenibile. La sua struttura: una riunione ministeriale, che di norma si tiene ogni due anni per adottare piani di lavoro e progetti decisi con il metodo del consenso; Segretario generale designato a rotazione tra gli Stati membri ogni due anni; sei gruppi di lavoro, che si occupano di inquinamento, monitoraggio, flora e fauna, prevenzione degli incidenti e preparazione alle emergenze, ambiente marino e sviluppo sostenibile.
Gli appetiti per quel mare di ghiaccio si accedono sul ricco piatto di gas, petrolio, minerali rari sedimentati sui fondali marini, pesce e, dalla presunta fine della guerra fredda, per le aree da destinare alle basi militari buone per tenere sotto minaccia costante le potenze avversarie. Prime fra tutte, per numero e quantità di armamenti, quelle USA miranti la vicina Russia.
A fare le spese di tutto ciò, come sempre, le comunità indigene locali. Il clima rigido, al limite della sopravvivenza, al quale i popoli dell’Artico si sono nei secoli adattati ha indotto una stupefacente interdipendenza e un esemplare sistema di mutuo soccorso capaci di garantire nonché cura e assistenza reciproca in situazioni di emergenza. E ciò, nonostante i labili confini statuali, lingue diverse (finlandese, kven, norvegese, russo, sami e svedese), diversi contesti etnici e religiosi. Un multiculturalismo e una multietnicità che potrebbero sfatare i tanti lughi comuni strumentalmente cavalcati da certa cultura politica. Il tutto, oggi, sempre più minacciato dalle sfide, dalle vessazioni, dalle usurpazioni e dagli sfruttamenti del territorio ad opera delle fameliche superpotenze bisognose di risorse naturali che non posseggono in patria.
Come per tutte le altre istanze globali, anche per il Consiglio Artico le minacce di un suo definitivo depotenziamento e di una sua irreversibile sottomissione a interessi particolari di questa o quell’altra potenza, e dei loro rispettivi interessati finanziatori beneficiari dei lauti profitti ricavati da più o meno occulte sovvenzioni, sono vieppiù manifeste. Due esempi recenti possono fugare i dubbi di lettura facinorosa. Correva l’anno 2019, termine del biennio di leadership finlandese, quando l’allora Presidente USA Joe Biden – si badi bene non (ancora) Trump – rifiutò di sottoscrivere la dichiarazione finale del vertice ministeriale a causa della esplicita citazione della causa antropica del cambiamento climatico e delle conseguenti misure vincolanti proposte nel documento. O ancora nel 2021-2023 dove, a motivo della presidenza Putin e dell’occupazione dell’Ucraina, ogni progetto e qualsivoglia cooperazione tra gli Stati venne interrotta per sanzionare Mosca favorendo una totale liberalizzazione della pesca a strascico e della caccia alle balene teoricamente vietate, e delle trivellazioni del sottosuolo marino. Perforazioni che, oltre a devastare l’ambiente circostante, sono state in molti casi causa di terremoti e onde anomale riversatesi sulla precarietà delle popolazioni costiere. Tsunami sconosciuti al pari di ogni irresponsabile azione condotta in quei territori. Tremano i polsi immaginando cosa potrà accadere d’ora in poi con l’avvento prepotente di politiche isolazioniste, negazioniste, prevaricatrici e fondate sull’uso della forza nella risoluzione (?) delle controversie, ivi comprese quelle altrui.
Chi ripropina anacronistici nazionalismi, assurdi campanilismi, arcaiche sovranità nazionali, insostenibili difese di interessi egocentrici, improponibili indipendenze geolocalizzate, dovrebbe spiegare le soluzioni previste a problemi di questa portata e le contromisure proposte per gli inevitabili effetti che producono sui tutti noi. Chi li condivide, li sostiene e li appoggia potrebbe per una volta alzare lo sguardo oltre il proprio ombelico e riflettere su come in futuro salvaguardarlo.