La “zona rossa” delle case popolari

La possibilità per i cittadini di godere in sicurezza degli spazi pubblici delle città, Cantù compresa, è senza dubbio un diritto da garantire e tutelare. Che le “zone rosse” siano la soluzione al problema non solo è opinabile, ma non trova nemmeno il consenso e la convinzione di chi il centro di Cantù lo tiene vivo, lo abita, conserva quelle oasi di salvezza dalla desertificazione galoppante che negli anni ha deviato i flussi umani verso i cimiteri viventi dei centri commerciali e delle sale gioco dell’azzardo di Stato.
L’ipotesi di istituire una zona rossa in Piazza Garibaldi, al vaglio delle autorità competenti, non fa saltare di gioia nemmeno i pochi esercenti rimasti tra Pianella e San Rocco. Piuttosto, li porta a sospettare la possibile “amplificazione del problema” (“La Provincia” del 7 febbraio 2025). E a tal proposito, sarebbe interessante (magari) sentire il parere dei loro colleghi in periferia (ma tanto chissene, basta preservare la Cantù-bene!) che inevitabilmente faranno i conti con la transumanza della violenza notturna in altri quartieri.
Sempre che, come sollevato con innato senso pratico dagli stessi esercenti, l’applicabilità della misura proposta sia accompagnata dall’esplicitazione dei criteri di identificazione dei “soggetti violenti” che infrangeranno la zona off-limits (sarà l’aspetto fisico “diverso”? un certo abbigliamento stereotipato? un rapid-test di italiano? un’autocertificazione sulle armi e le sostanze in possesso come negli aeroporti statunitensi? Il “palloncino” per tutti? check point “charlie” agli ingressi? Il controllo a tappeto dei documenti?). Esercenti che (si badi non forze di opposizione), con medesimo senso delle cose, ribadiscono la necessità di azioni preventive e simultanee senza le quali “il centro di svuota ancora di più” (più di così!).
La ferrea determinazione di voler “recuperare fruibilità degli spazi … vietando la presenza di soggetti pericolosi”, che arde in petto a Ministri e Sottosegretari di Stato, sono certo sarà innanzitutto e previamente da essi sperimentata, ad esempio, nelle curve delle tifoserie degli stadi di “serie A”. Spazi nei quali, da troppo tempo e incontestabilmente, i violenti la fanno da padroni di casa mettendo a repentaglio l’incolumità di persone per bene, intere famiglie e sinceri appassionati di sport. Nel frattempo, e con somma umiltà, mi permetto di segnalare un problema che, se aggredito, potrebbe forse servire allo scopo. Almeno come inizio. Come “sperimentazione” simultanea. A partire da Cantù.
In provincia di Como, solo l’8% delle domande di case popolari trova una risposta (a Como e hinterland 56 allocazioni su 666 domande presentate; in provincia 188 chiavi consegnate a fronte di 2.496 richieste). Fondazione Scalabrini, che di alloggio popolare se ne intende, stima che una famiglia con reddito pari a 1.284 Euro/mese può ambire all’affitto di un monolocale di 30 mq, mentre per locare un appartamentino di 65 mq deve poter contare su un’entrata mensile da 2.780 Euro. (dati riportati da “La Provincia” di oggi).
Forse – e dico forse – chiunque, in simili condizioni, da qualche parte qualche bottiglia la spaccherebbe e qualche cazzotto lo tirerebbe. Giusto non potendo sfogare la rabbia in quella casa che non c’è.
L’unica “zona rossa” che per ora funziona alla grande è quella che impedisce l’accesso al diritto alla casa che, per la Costituzione italiana e le Convenzioni internazionali, è diritto universale e inviolabile.