L’ affaire Starlink osservato da un altro punto di vista

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La vicenda dell’accordo che il Governo si appresta a siglare con la rete Starlink, quella dei satelliti di Elon Musk, è una di quelle che a molte persone intellettualmente oneste, me compreso, suscita prudenza di giudizio, ma anche istintiva paura. Una di quelle paure che si insinuano sottopelle ogniqualvolta non si hanno gli strumenti per comprendere a fondo la portata di un problema e, di conseguenza, la giustezza delle soluzioni proposte.

Quel poco che sono riuscito a comprendere sono i dati schiaccianti della supremazia e del monopolio instaurati dal magnate sudafricano naturalizzato statunitense con la sua rete satellitare. Oltre 7mila satelliti già in orbita che raggiungeranno i 70-100mila entro il 2030. Fidandomi della competenza e consueta obiettività di valutazione di uno come Lucio Caracciolo, il Direttore dell’autorevole rivista “Limes”, capisco che una soluzione alternativa all’affidarsi a Starlink non sia oggi possibile. La meno auspicabile sarebbe quella di buttarsi nelle braccia dei cinesi. La più ragionevole quella di rimanere vincolati ai progetti sviluppati in ambito Unione Europea. Peccato che i questo caso, quello del programma IRIS 2, i dati siano impietosamente incomparabili: saranno solo 290 i satelliti che, forse, diverranno operativi alla fine di questo decennio e, con buona probabilità, lanciati in orbita da missili dello stesso Musk, come fino ad ora accaduto.

Ammessa quindi la scarsa capacità di maneggiare una così complessa materia, mi sento ben più solido nel riflettere su altro problema del tutto ignorato nel dibattito corrente. Mi riferisco all’inadeguatezza istituzionale e alla mancanza di giustizia economica che deriva dall’assenza di una qualsivoglia regolamentazione dell’utilizzo dello spazio, inteso come un innegabile bene comune globale, per fini privati. Al pari di un’altra materia, anch’essa totalmente priva di regolamentazione, di controllo, di censimento.

Parlo dell’attività speculativa che i big della finanza internazionale praticano quotidianamente giocando sulle fluttuazioni delle borse mondiali e, purtroppo, sulla pelle di miliardi di persone. Come per l’affare satellitare, in entrambi i casi gli enormi profitti prodotti da questi business, l’assenza di un’autorità in grado di garantire una governance di queste nuove frontiere speculative consentono la completa liberalizzazione e il più grande libertinaggio di un manipolo di superricchi imprenditori. Le montagne di denaro da essi investite piegano a proprio vantaggio il mercato che, da libero che si voleva, si è ormai trasformato in una sommatoria di oligo-monopoli nemmeno sottoposti ad alcun meccanismo di prelievo fiscale.

Lo spazio, dicevo, è un bene comune. Se per bene comune intendiamo “l’insieme delle risorse, materiali e immateriali, utilizzate da più individui e che possono essere considerate patrimonio collettivo dell’umanità”, allora lo spazio e l’atmosfera vi rientrano al pari del clima, degli oceani e mari, delle risorse naturali necessarie alla sussistenza del genere umano (come foreste, acqua, terra, sementi, biodiversità …), dei servizi pubblici offerti per la buona vita delle persone. E come per tutti essi la loro privatizzazione deve essere vietata, il loro sfruttamento va sottoposto a meccanismi di regolamentazione condivisi e la generazione di profitti da essi derivanti oggetto di sistemi redistributivi della ricchezza generata. Tutti principi ignorati anche nel caso dell’occupazione delle aree spaziali circostanti il nostro pianeta.

Negli anni ’90, don Franzoni, a quei tempi Abate della basilica di San Paolo fuori le mura a Roma, andava proponendo una tassazione per l’utilizzo dello spazio da parte delle compagnie aeree. La tesi di fondo da lui sostenuta era molto semplice: le ricadute negative delle migliaia di aeromobili che quotidianamente solcano lo spazio-bene comune, come l’inquinamento da essi provocato e “pagato” da tutti, quantomeno impongono la richiesta di un contributo ai costi riparativi da parte di chi le provoca e ne trae profitti. Regola che, ad esempio, è pacificamente da tutti accettata per l’utilizzo di automobili.  Anche se lontano dalle odierne condizioni, il principio rimane il medesimo. Chiunque sfrutta un bene “di proprietà” di tutti, per l’appunto un bene comune, a quei tutti deve un controvalore economico. Così come qualsiasi profitto ottenuto, indipendentemente dalla sua origine, è del tutto normalmente sottoposto a meccanismi di prelievo fiscale, si spera sempre progressivi, in quanto ritenuti necessari a garantire la copertura dei costi del buon mantenimento del bene comune sfruttato e della migliore erogazione dei servizi in essi ricompresi.

Immagino già alcune reazioni che potrebbero tacciare di utopismo l’attualizzazione e l’attuazione della proposta di Franzoni allo sfruttamento dello spazio dei nostri giorni. Basterebbe rintuzzarle argomentando la fortuna del godere della creatività propositiva e della coscienza critica di qualche profeta dei nostri tempi. Preferisco, invece, ricordare come proposte altrettanto considerate utopistiche abbiano trovato una concreta applicazione e prodotto efficaci risultati.  Ad esempio menzionando quanto accaduto con la proposta di cancellazione del debito dei Paesi poveri avanzata dalle ONG negli anni ’90.

Anche in quel frangente, le accuse di utopismo si sprecavano. Le critiche di surrealismo si rincorrevano. Tuttavia, pochi anni dopo l’avvio di una campagna di sensibilizzazione e lobbying organizzata a livello mondiale, diversi Paesi creditori hanno adottato di leggi orientate in tal senso (l’Italia, vale la pena ricordarlo, nel 2000 con la Legge 209). Un successo ancora parziale, vero, ma una strada definitivamente aperta. Oggi la maggioranza del debito estero è detenuto da soggetti privati, banche in prima linea, nei confronti dei quali, come per la vicenda “satelliti”, si comprende la maggior difficoltà di intervento da parte delle istituzioni pubbliche. Ciononostante, un percorso non arrestabile. Come dimostrano le dichiarazioni dell’ex Commissario europeo Paolo Gentiloni appena nominato co-presidente della task force dell’ONU che è chiamata ad affrontare la crisi del debito dei Paesi poveri (avesse considerato questa priorità quando a capo del dicastero dell’economia europea !!).

Musk, imprenditori dell’Unione Europea o della Cina, e quant’altri intendano lucrare su un bene di “proprietà” comune, non possono essere esentati dal rispetto di una giustizia economica che impone una redistribuzione dei profitti ottenuti da impiegarsi nella tutela e nel miglioramento dei beni comuni. E questo, come per tutti i comuni mortali e fatte salve benvenute alternative, non può che essere conseguito applicando una regolamentazione e una fiscalità condivise. Due meccanismi del tutto assenti nella corsa all’oro dei nostri giorni per la conquista del nuovo Eldorado.

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