Le vittime delle guerre hanno tutte lo stesso colore del lutto

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La cronaca sul conflitto israelo-palestiniano ha raggiunto livelli paradossali. L’umanitarismo evocato dai partigiani delle due parti contendenti, sembianze tragicomiche. La perversa ricerca e diffusione di particolari, di dettagli e di episodi possibilmente tra i più macabri, accanimento ribrezzante.  

La paladina difesa del popolo ucraino contro l’aggressione criminale di Mosca, sino a pochi giorni fa fagocitante qualsiasi altro interesse, è ormai scomparsa da notiziari e talk show e qualsiasi altro dramma in essere sul pianeta terra ha perso di qualsivoglia notiziabilità. Non che prima dell’attacco terroristico di Hamas a Israele l’orizzonte mediatico italiano fosse molto più esteso. Ma in queste settimane si tocca ancor di più con mano come il provincialismo, o la strumentalità, dell’informazione nel nostro Paese abbia toccato il suo punto più profondo.

Con indefessa insistenza diversi mezzi di informazione “alternativi”, quindi senza gran seguito supino, da tempo si prodigano nel sensibilizzare l’opinione pubblica sugli oltre 50 conflitti in essere nel mondo. A partire dal puntuale e circostanziato Rapporto sui Conflitti dimenticati, redatto annualmente da Caritas italiana e Pax Christi, che nulla sembra potere contro il mainstreaming dei ben più potenti mezzi di comunicazione di massa. A tratti, o per il momento, sembra di essere tornati all’epoca dell’attentato alle Torri Gemelle e alla conseguente insulsa, ingiustificata, pretestuosa guerra all’Iraq di Saddam Hussein. Pur nella più totale assenza di minacce migratorie alle nostre frontiere o del timore di un’espansione coinvolgente il nostro quieto vivere, subliminali giustificazioni dell’informazione concentrata di oggidì, anche in quella “circostanza” i tubi catodici e le pagine di rotocalchi, quotidiani e settimanali di opinione non avevano spazio per altro.

Ciò che sembra accomunare i martellamenti ricorrenti dell’informazione massmediatica è qualcosa di diverso dell’umanitarismo propugnato a motivazione di cotanto interessamento. L’orrore, la condanna, l’indignazione per quanto accaduto nella Terra “Santa” per le tre religioni abramitiche è ovviamente condivisibile, dovuto, inoppugnabile. Ma la portanza dei crimini ivi perpetrati, che speriamo non soggiacciano alla logica del “occhio per occhio” moltiplicando così le nefandezze della violenza e della guerra, è tanto ripugnante quanto drammaticamente non esclusiva. Volendo per un attimo solo “misurare” il dolore e il sopruso con il metro dell’orrore, ad uno sguardo meno provincializzato ci si renderebbe conto di quanto crimini, attentati, stermini, assassini e stragi di innocenti siano altrettanto drammaticamente perpetrati in molte altre parti del mondo.

E, di conseguenza, indignarsi, compartecipare, mettere in atto misure, prendere posizione, con la stessa empatia fino a schierarsi accalorati per i “Territori occupati” nelle Filippine, nell’Amazzonia, in Australia, in Sri Lanka, perfino nel glaciale Nord America, oltre che in Palestina. Piangere, scandalizzarsi, orripilare per le centinaia di innocenti, bambini compresi che tanta commozione epidermica innescano, vittime della furia cieca di bande, milizie, squadre mercenarie, predoni, squadroni della morte, trafficanti, signori della guerra contrapposti in decennali conflitti fomentati dalle logiche predatorie di governi umanitaristi alla bisogna.

Se nemmeno i bambini di Kiev reggono alla logica perversa dell’emotività mediatica, o della battaglia dello share, che cinicamente li sostituisce con quelli di Tel Aviv; se bastano poche settimane per calare un pietoso sipario su Odessa, Kharvik o Mariupol; se la paura indotta per le invasioni mediterranee cede il posto a quelle dal confine sloveno; allora sembrerebbe illusorio ipotizzare di smuovere le coscienze, o le pance, per Giuba, Kasese, Tijuana o Sagaing.  Non sappiamo nemmeno collocarle sulla cartina geografica. L’interesse sporadico per queste altre vittime dell’odio, del terrorismo e della guerra è consegnato a qualche boutade di politicanti alla ricerca di provocazioni estremizzanti o alle esternazioni umanitarie buone per mimetizzare altri interessi soggiacenti.

I palestinesi non si vedono riconosciuto il loro diritto ad uno Stato indipendente. Israele rivendica il suo diritto a non vivere sotto la minaccia costante di un terrorismo folle. Così come i Maori in Nuova Zelanda e le comunità aborigene in Australia non sono riconosciuti da “moderne” costituzioni; il Fronte Polisario nel Sahara Occidentale lotta da decenni per un’indipendenza dal regime di Rabat; i Quechua dell’America latina tentano di resistere all’occupazione delle loro terre fertili da secoli agita dalle multinazionali del profitto; gli indios dell’Amazzonia, i Batwa del centrafrica, i Paria indiani, gli aborigeni statunitensi, gli Inuit di Canada e Groenlandia, ……. Tutti popoli, come quelli palestinese ed israeliano, che oggi, nello stesso istante, negli stessi giorni delle tragedie e dei crimini compiuti in Terra Santa vivono lo stesso dramma, respirano il medesimo terrore, piangono i loro figli, pregano per i loro morti, cercano risposte ad un presente infame e ad un futuro negato. Tutti sono vittime di questa “guerra mondiale combattuta a pezzi”, come ammonisce Papa Francesco.  

L’asservimento dei media è fin troppo palese. Quello del nostro pensiero a rischio. La resilienza neurologica al tentativo in atto di omogenizzare, annichilendolo, il pensar comune è una prima efficace e necessaria forma di affermazione dell’individualità e della libertà di ciascuno e l’ultima barricata di resistenza alle armi di distrazione di massa.

Confinare la solidarietà, restringere i confini dei diritti fondamentali, porre limiti all’umanitario, classificare le vittime, circoscrivere la pietas, discriminare, vagliare, dosare, sono comportamenti che non appartengono alla ricerca sincera di una convivenza pacifica e alla brama di giustizia. Qualcuno potrà ancora valutare i propri tornaconti, altri elaborare le strategie più redditizie, altri ancora far ricorso alla ragion di stato, taluni rivendicare gli interessi nazionali, talaltri avocarsi alla difesa dei nostri confini. Tutti nella piena legittimità, tutti nel diritto di farlo. Nessuno, però, nel nome dello spirito umanitario, della difesa del baluardo democratico o, peggio, del dovere di giustizia.

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