Dal 15 maggio l’Italia è in debito con il pianeta
Per l’Italia il 15 maggio, come nel 2022, è coinciso con l’“Over Shoot Day”, ovvero, e utilizzando la terminologia scientifica, la data alla quale l’impronta ecologica inizia a superare la biocapacità. In altri termini, secondo i dati del Global Footprint Network, la data del 15 maggio è stata per il nostro sistema Paese quella a partire dalla quale il consumo di risorse ha iniziato a superare le disponibilità del nostro ecosistema nazionale, andando ad erodere le riserve del pianeta, perché non in grado di rigenerarle alla medesima velocità dei consumi. Per i prossimi sette mesi del 2023, quindi, noi italiani potremo continuare a sostenere il nostro stile di vita grazie ad un costo accollato ad altri.
Per avere un termine di paragone efficace, la quantità di risorse richieste per l’insieme delle attività e dei consumi degli italiani è superiore di circa tre volte la quantità di risorse che il territorio è in grado di rigenerare: per soddisfare le nostre esigenze, occorrerebbero tre Italie.
La coincidenza, ad un anno di distanza, delle due date la dice lunga sull’infondatezza propagandistica delle declamate misure adottate in materia di riconversione ecologica e di tutela dell’ambiente.
Lascio al lettore la deduzione circa le conseguenze di un’eventuale espansione del modello di sviluppo e di consumo perseguiti in Italia, prospettiva ipotetica, ma non per questo escludibile tanto meno in nome di presunti privilegi o di irripetibili capacità, che gran parte della politica persevera nel considerare come modello esemplare, addirittura da esportare in altre parti del mondo.
Piuttosto, mi preme riflettere sul rischio, nel tentativo di scongiurarlo, di incorrere in una sorta di stanchezza e di assuefazione rispetto alla tematica della limitatezza delle risorse naturali, della tutela e salvaguardia dell’ambiente e delle responsabilità quotidianamente assunte con gli egoismi di corto raggio. Addirittura, con crescente frequenza, di incappare in una vera e propria insofferenza verso chi e rispetto alle occasioni che richiamano uno dei problemi più drammaticamente urgenti, sottolineando l’incomprensibile ed irresponsabile inazione al riguardo. Iniziando col mettere sul piatto un paio di dubbi.
Se si condivide l’inammissibilità delle violazioni del codice civile, ovvero della norma di convivenza per eccellenza, compiute in reazione alla refrattarietà alla messa in campo di azioni concrete tese ad affrontare il problema, altrettanto non si dovrebbe condividere l’inammissibilità delle violazioni di un codice civile globale, ovvero delle norme stabilite e sottoscritte nelle competenti sedi internazionali, commesse da decenni dai decisori avvicendatisi al governo del nostro Paese in materia di sostenibilità, tutela dell’ambiente e lotta ai cambiamenti climatici?
Se si reputano inaccettabili comportamenti estremi lesivi del bene comune costituito da un patrimonio pubblico e condiviso, allora non si dovrebbero immediatamente contrastare e stigmatizzare, per non dire sanzionare, comportamenti ugualmente dannosi per un bene comune pubblico e condiviso come quello dell’ambiente e dell’aria che respiriamo?
Il giustificatorio appello all’insignificanza dei gesti individuali a fronte della portata dei problemi, alquanto pertinente nel caso delle tematiche ambientali e della sostenibilità dello sviluppo, stride con il dato appurato secondo il quale l’impronta media di un italiano è costituita per il 25% dalle modalità scelte per i trasporti personali e per il 31% dallo spreco di cibo. Infatti in Italia, va detto Paese tra i più virtuosi in Europa, la media di cibo sprecato è stimata in ben 67 Kg/persona/anno, equivalente ad un totale di circa 4 milioni di tonnellate/anno di alimenti che finiscono nella spazzatura (dati UNEP). Lo scandaloso contrasto di queste cifre con i 2 miliardi di persone che nel mondo soffrono di insicurezza alimentare pone un inevitabile interrogativo etico.
Al contrario, ciò che non mi lascia dubbio alcuno è la potenziale trasversalità, peraltro già dimostrabile, della condivisione dell’impegno richiesto per affrontare e risolvere il problema della salvaguardia del nostro pianeta. L’imperiosa necessità di agire rapidamente per sovvertire il folle esito prevedibile perseverando nel procrastinare l’azione non è, né può essere, connotata come partigiana; tanto meno strumentalizzata da becere prese di posizione da reddito.
In questo, dicevo, non mancano evidenze ed esempi incoraggianti. Non da ultima, l’iniziativa “Beyond Growth” (Oltre la crescita n.d.r.): una Conferenza promossa proprio nei giorni dal 15 al 17 maggio scorsi da alcuni europarlamentari appartenenti a diversi Gruppi politici – Popolari, Verdi, Sinistra, Socialdemocratici, Centristi di Renew Europe e Indipendenti – supportati da oltre 60 Organizzazioni di società civile. Già la composizione dei promotori evidenzia la possibile convergenza di politiche orientate agli interessi generali piuttosto che imbrigliate nei giochetti di piccolo cabotaggio. Poi, con grande sollievo personale, i contenuti delle conclusioni emerse dalla Conferenza hanno finalmente scardinato un principio sinora dogmatico per la quasi totalità delle culture politiche: l’indissolubilità presunta tra crescita e crescita economica.
Rifuggendo ogni sorta di oscurantismo e di bucolica malinconia, ho sempre sostenuto l’infondatezza di certa diffusa propaganda che pone “la crescita economica” come conditio di qualsivoglia sviluppo e, indistintamente, della maggioranza dei programmi di governo; assunto, questo, già di per sé opinabile e autorevolmente opinato.
Constatando la possibile concretizzazione di inedite convergenze fondate sulla responsabilità avvertita nei confronti del bene comune, mi rafforzo nella convinzione dell’opportunità, per l’interesse della comunità, di agire, dove possibile, per un superamento di schieramenti ideologici ormai ridotti all’incasso di un consenso basato su interessi particolari e di breve termine, sorretti da un’indifferenza egocentrica alimentata ad arte e sfruttata a dovere.