Politiche per il lavoro e pannicelli caldi

Il lavoro è un diritto inalienabile che va garantito “a condizioni non lesive della sanità fisica e del buon costume, e non intralcianti lo sviluppo integrale degli esseri umani in formazione; e, per quanto concerne le donne, il diritto a condizioni di lavoro conciliabili con le loro esigenze e con i loro doveri di spose e di madri”. Così ammoniva 60 anni orsono Papa Giovani XXIII nella sua Enciclica Pacem in Terris (11 aprile 1963). La stessa Enciclica che affermava il diritto, “quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse. Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale”.

Ci piace ricordarlo oggi a tutti noi; a chi si proclama donna, madre e cristiana; a chi utilizza la propaganda populista dei pannicelli caldi dei “Bonus bebè”; a chi crede di risolvere il problema dell’invecchiamento di una società con 200 Euro a figlio alternativi a serie politiche di incentivazione della natalità, del lavoro e del lavoro dei giovani e delle donne in particolare; a chi pone strumentalmente in contrapposizione immigrazione ed occupazione.

I dati della ricerca Lavorare pari: dati e proposte sul lavoro tra impoverimento e dignità, realizzata dall’Area Lavoro Acli in collaborazione con L’IREF e il CAF ACLI, parlano chiaro: come sintetizzato a “VITA” dal Vice Presidente nazionale di ACLI, dalle 760 mila dichiarazione dei redditi 2021 analizzate “emerge che il14,9%, pur lavorando, ha un reddito inferiore o pari a 9mila euro. Se si considerano anche i redditi complessivi inferiori o uguali a 11mila euro, ovvero quelli dei lavoratori poveri (working poor), si arriva ad una percentuale di lavoratrici e lavoratori pari al 19,5%; mentre si raggiunge il 29,4% tra quanti hanno un reddito complessivo che non va oltre i 15mila euro e che possiamo definire “vulnerabili”, ovvero a rischio di povertà di fronte ad un evento inaspettato o fuori dall’ordinario (una malattia, un divorzio o perfino la nascita di un figlio). Le donne e i residenti al Sud hanno redditi più bassi. A scontare una peggiore condizione reddituale sono i residenti nelle regioni del Sud e le donne. Nel dettaglio, queste ultime sono il 21,7% delle persone che possono contare su 9mila euro annui (gli uomini il 7,1%). Le lavoratrici che hanno redditi inferiori o uguali a 11mila euro sono il 27,9% (gli uomini il 9,8%) e sono il 40,9% delle persone povere o comunque vulnerabili”.

Una situazione di disparità già di per se eloquente che, tuttavia, assume caratteristiche ancor più inquietanti tra gli ultrasessantenni, fascia di età nella quale le donne con i redditi al di sotto dei 9mila Euro sono il 43,7%, rispetto al 7,2% degli uomini.

Trovare soluzioni a questo problema, va ammesso, non è cosa semplice. Tuttavia, altri Paesi ci sono riusciti e potrebbero fungere da ispirazione per il varo di strumenti strutturali, duraturi e afferenti a strategie di lungo termine alternative ai mezzucci propagandistici per la ricerca del consenso e a misure assistenzialistiche di futile impatto.

Come in Svezia, ad esempio, Paese nel quale dal 1974 i padri possono richiedere lo stesso congedo parenterale delle madri per un periodo oggi giunto a 16 mesi “indennizzati” e utilizzato dal 50% dei papà; possono assentarsi 60 giorni/anno fino al compimento del dodicesimo anno del proprio figlio; gli asili nido sono gratuiti, salvo che per i benestanti, e utilizzati dal 100% dei neonati; i giovani fino a 29 anni con almeno un figlio ricevono un indennizzo pari al 50% dell’affitto; in caso di secondo figlio avuto entro due anni dal primo, il genitore non deve tornare al lavoro nel periodo tra i due congedi. Sono alcune delle politiche che hanno portato in questi 50 anni un incremento dell’occupazione femminile dal 50% all’ 85%, contro il 55% attuale dell’Italia.

Certo, tutto questo richiede risorse ingenti, ma soprattutto lungimiranza, scelta di priorità o quantomeno coerenza declamatoria. Non a caso, Svezia, Finlandia, Lussemburgo, Norvegia investono per le politiche in favore di famiglie e infanzia oltre il 3% del PIL contro il 1,1% dell’Italia, mentre la spesa sociale si assesta praticamente sugli stessi valori (28,3% Italia; 27,1% Svezia).

Se non per adesione, per convinzione, per credo o per cultura, sarebbe opportuno che chi si trova a governare siffatta situazione sin convincesse, almeno per “virtù”, della necessità di accettare proposte alternative. Come hanno del resto fatto i dirigenti delle principali associazioni di categorie delle realtà produttive del nostro Paese. Confindustria, Coldiretti, Confartigianato, Sindacati ecc. hanno ripetutamente manifestato la necessità di disporre di nuova forza lavoro; hanno reiteratamente richiesto l’accoglienza di lavoratori di altri Paesi per far fronte ad un’emergenza tanto evidente, quanto negata.

Ovviamente non ne sarei felice, tanto meno adirei convintamente a tale compromesso momentaneo. Tuttavia, lo ammetto pur di difendere un imperituro diritto. Nel contempo, per adesione, per convinzione, per credo e per cultura, mi batto per quel diritto di ogni persona, riaffermato 60 anni orsono, ad essere considerata appartenente, in qualità di cittadino, alla comunità mondiale e membro della stessa famiglia umana.

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