a proposito di memoria

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Savar, sub distretto della Grande Area di Dacca, capitale del Bangladesh: il 24 aprile di 10 anni orsono 1.200 persone persero la vita nel crollo di un grande palazzo costruito come centro commerciale, ma poi adibito a fabbrica tessile per la produzione di abiti low cost destinati ai mercati di tutto il modo e dell’Occidente in particolare.

Il Rana Plaza non ha retto alle sollecitazioni delle vibrazioni di centinaia di macchine da cucire e di pesanti telai che impiegavano 5.000 addetti costretti a lavorare in condizioni di sfruttamento da datori di lavoro incuranti delle norme di sicurezza e dei basilari diritti dei lavoratori. Nemmeno quando giorni prima della tragedia, erano stati messi in allerta dalle autorità competenti per le numerose crepe riscontrate nei muri portanti. Allarme recepito dagli uffici della Banca ospite dello stesso edificio e dai pochi negozi aperti come da destinazione iniziale che hanno prontamente impedito l’accesso al proprio personale mettendolo al sicuro. Gli schiavi del tessile low cost no: sono stati obbligati, anche a costo di minacce e violenze, a mantenere le loro postazioni. La macchina del profitto non poteva essere arrestata; l’approvvigionamento dei nostri guardaroba non doveva essere interrotto.

Al numero incredibile di vittime rimaste sotto le macerie dell’implosione della struttura di 10 piani, di devono aggiungere oltre 2.500 feriti e la quasi totalità di operai che da allora vivono sotto gli effetti dell’incubo scampato e, danno e beffa, non hanno più trovato un posto di lavoro. Per 40 Dollari al mese, migliaia di persone hanno perso la vita, il lavoro e ogni diritto; quasi un tragico emblema dei milioni di lavoratori che, in tutto il mondo, provano a tirare il giorno dopo in condizioni di sfruttamento disumano.

Credo che ricordando la tragedia del Rana Plaza ci troviamo di fronte due opzioni: accedere a un software di geolocalizzazione per vedere l’ubicazione e qualche notizia di chi fa memoria del delitto compiuto e poi passare oltre, oppure aprire i nostri armadi e verificare se per caso non ci siano abiti “made in Bangladesh”, in Cina e in qualche altro Paese povero dei Sud del mondo e convincerci che la fierezza dei nostri risparmi di qualche Euro deve lasciare il posto al rimorso del sentirsi corresponsabili di un’ennesima ingiustizia perpetrata sulla pelle di altri.

Tra chi ha optato per la seconda ipotesi, ci sono anche i fondatori della Clean Clothes Campaign che, in Italia, agisce con la sigla “Campagna Abiti puliti”. Si tratta di persone, attivisti e associazioni che hanno deciso per un’iniziativa autonoma dopo che l’Accordo siglato tra i principali marchi del tessile mondiale per garantire diritti e condizioni di sicurezza ai propri lavoratori è stato, come altri, disatteso. In tutto il mondo, infatti, da 10 anni a questa parte nulla, o pochissimo, è cambiato. Gli ingenti profitti del mercato degli abiti a basso costo sembrano essere inversamente proporzionali alle tutele offerte agli addetti di settore nei Sud del mondo. Da qui, l’ultima iniziativa della Campagna: una settimana della moda diversa, anche da quella piena di lustrini, e della quale in molti si lustrano, organizzata annualmente nella nostra ricca Milano. Con la Fashion Revolution Week, dal 18 al 24 aprile di ogni anno 86 Paesi organizzano eventi e manifestazioni per ricordare un principio tanto semplice quanto disatteso: le scelte di noi consumatori hanno un potere straordinario sull’orientamento e sulle condizioni di sviluppo del mercato. Nel bene e nel male.

E per chi volesse mascherarsi dietro l’ormai ingiustificabile “non sapevo, non ne ero informato”, il sito Ethicalconsumer.org in questo caso toglie ogni alibi. Grazie al sempre aggiornato Fashion Transparency Index tutti possiamo scoprire il grado di eticità di ben 40 marchi di abiti, così come di molti altri produttori di settori diversi, comportarci consapevolmente, e indirizzare un pezzetto di mercato. Per il bene o per il male.  

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