Pena, sicurezza, diritti e rieducazione

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Il dibattito e gli scontri apertisi in questi giorni in merito all’articolo 41 bis del Codice Penale e alle azioni di alcuni Parlamentari, pongono alcune questioni di fondo che vale la pena ricordare.

Premettendo, innanzitutto, di non essere un esperto giurista, né tanto meno desideroso di entrare negli aspetti contestuali della contesa, credo opportuno riflettere su quanto posto a fondamento primo dell’ordinamento penale italiano.

La nostra Costituzione, all’articolo 27, definisce chiaramente le finalità dell’istituto della pena: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte.”

I tre principi ivi esposti – la presunzione di innocenza degli imputati, il primato dei diritti umani e la finalità rieducativa della detenzione – fissano capisaldi invalicabili e orientamento chiarissimo per il difficile e impegnativo compito di commisurare la pena ai reati commessi e per l’esercizio di sorveglianza delle forze dell’ordine preposte.  Vigilare e verificare che tali capisaldi siano correttamente rispettati e tali principi rigorosamente applicati è compito precipuo della politica. Compito, va detto, valevole in qualunque caso e nei confronti di tutti, nessuno escluso,  indipendentemente dalla gravità o dalla efferatezza del reato commesso.

Da ciò ne discende innanzitutto un legittimo dubbio circa la ricorrente applicazione dell’ergastolo e, ancor più, dell’ergastolo ostativo. La non ammissibilità aprioristica di una possibile redenzione da parte di condannati, contraddice in termini la finalità costituzionale della rieducazione. Condannare per una sommatoria di anni equamente misurata sulla base dei reati è cosa ben diversa dal delegare la decisione del termine della pena a madre natura. Anche nel caso in cui la sommatoria degli anni di pena oltrepassassero ragionevolmente la speranza di vita più ottimistica del condannato.

Un ragionamento questo, che vale ancor più nel caso dell’ergastolo ostativo. Come noto, questa forma di pena recentemente introdotta in ordinamento a seguito delle stragi terroristico-mafiose degli anni ’90 e che per la cronaca nulla ha a che vedere con il “41bis”, addirittura prevede che l’applicazione dei benefici penitenziari venga valutata unicamente nel caso il condannato scelga di diventare collaboratore di giustizia. Come definisce il dizionario Treccani, si tratta di una forma di “pena fino alla morte, ovvero di pena diversamente capitale”.

In una situazione nella quale anche in Italia la cronaca non è esente da dubbi circa il non ricorso a metodi violente a soluzioni estreme adottate dalle forze dell’ordine, da Pinelli a Cucchi per citare i casi più discutibili, e comunque in presenza dell’applicazione della forma di pena più severa e di conseguenti reazioni estreme, reputo doveroso, insindacabile e necessario che la politica svolga un compito di monitoraggio e verifica della coerenza e del rispetto dei diritti della persona e dei dettami costituzionali.

Stupisce constatare che forze politiche strenue sostenitrici della separazione delle carriere e del blocco delle cosiddette “porte girevoli” si inalberino all’espletamento dei ruoli “separati” che ammettono, per definizione ed efficacia, funzioni e finalità diverse tra organi giudiziari, forze dell’ordine e politici. La separatezza attiene, in ogni campo, a ruoli, a competenze, a diritti e doveri che vanno esercitati nell’autonomia confermata da mandati e compiti definiti che ne garantiscano quanto più possibile l’equità e la giustezza.

Non vi è dubbio che il delicatissimo compito di trovare il giusto equilibrio tra diritti umani, diritto alla vita e sicurezza dei cittadini, quindi del diritto alla vita su base comunitaria, spetta alla magistratura, ma opportunamente stressata da punti di vista diversi, sempre utili in situazione di precarietà di oggettivismo, come quelli espressi autonomamente dalla politica e dal legislatore.

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